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Avatar di Nicola Volonterio

A beneficio di tutti i lettori di commenti: sul tema divise fighe segnalo il lavoro di Gente Fuori Strada con WildTee e Alessandro Locatelli nel 2020 e quello di Runaway ASD con Diadora nel 2024. Secondo me in entrambi i casi lavori bellissimi, molto diversi ma credo perchè diverse le caratteristiche delle due associazioni e degni di citazione proprio perchè in grado di trasferire sulla divisa i "valori" della squadra.

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Avatar di Alessandro Lucia

Mi vengono in mente un paio di riflessioni sul primo punto. La prima in realtà, più che una riflessione, è un parallelismo: pro player vs content creator nell’ambito del gaming. Basta semplicemente confrontare i dati degli stream su Twitch dell’uno e dell’altro per capire chi ha maggiore risonanza, quello bravo a giocare o quello bravo a intrattenere. Tra l’altro, trattandosi di un campo in cui i valori cambiano molto in fretta (tra i 16 e i 18 anni già c’è grossa differenza per i tempi di reazione, se pensiamo agli sparatutto FPS tipo Valorant o Counter Strike), è molto comune che ex pro player decidano di passare dall’altro lato, abbandonando il competitivo per passare all’intrattenimento.

La seconda riflessione è applicabile sia all’atleta professionista vs atleta amatore content creator, sia all’esempio più su: siamo sicuri che il professionista (runner, gamer, quale che sia) sia necessariamente interessato a sponsorizzare così tanto la propria immagine? Mi viene da pensare, sempre ad esempio, a come viene generalmente concepita la corsa, da un punto di vista culturale, da parte di Kenioti ed Etiopi; e infatti la fetta grossa degli influencer sta - anche in questo campo, come sempre - negli Stati Uniti (per questioni statistico-numeriche, sì, ma per me anche culturali): gli USA, patria del capitalismo per antonomasia, sono terreno fertile per una concezione della propria immagine destinata alla diffusione, alla “vendita” della stessa. Non ho dati a supportarmi, ma a sensazione, tornando al mio parallelismo iniziale, succede molto più spesso che streamer statunitensi passino dal competitivo all’intrattenimento, rispetto a streamer non statunitensi che invece sono meno inclini a snaturarsi (o reinventarsi, chiamiamolo come ci pare).

Comunque, al di là della questione “percettiva” degli Stati Uniti, il quesito resta: è davvero necessario (e, se sì, a cosa per noi che siamo il pubblico?) che quel top 1% di atleti professionisti investa sulla diffusione della propria immagine?

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