A beneficio di tutti i lettori di commenti: sul tema divise fighe segnalo il lavoro di Gente Fuori Strada con WildTee e Alessandro Locatelli nel 2020 e quello di Runaway ASD con Diadora nel 2024. Secondo me in entrambi i casi lavori bellissimi, molto diversi ma credo perchè diverse le caratteristiche delle due associazioni e degni di citazione proprio perchè in grado di trasferire sulla divisa i "valori" della squadra.
Mi vengono in mente un paio di riflessioni sul primo punto. La prima in realtà, più che una riflessione, è un parallelismo: pro player vs content creator nell’ambito del gaming. Basta semplicemente confrontare i dati degli stream su Twitch dell’uno e dell’altro per capire chi ha maggiore risonanza, quello bravo a giocare o quello bravo a intrattenere. Tra l’altro, trattandosi di un campo in cui i valori cambiano molto in fretta (tra i 16 e i 18 anni già c’è grossa differenza per i tempi di reazione, se pensiamo agli sparatutto FPS tipo Valorant o Counter Strike), è molto comune che ex pro player decidano di passare dall’altro lato, abbandonando il competitivo per passare all’intrattenimento.
La seconda riflessione è applicabile sia all’atleta professionista vs atleta amatore content creator, sia all’esempio più su: siamo sicuri che il professionista (runner, gamer, quale che sia) sia necessariamente interessato a sponsorizzare così tanto la propria immagine? Mi viene da pensare, sempre ad esempio, a come viene generalmente concepita la corsa, da un punto di vista culturale, da parte di Kenioti ed Etiopi; e infatti la fetta grossa degli influencer sta - anche in questo campo, come sempre - negli Stati Uniti (per questioni statistico-numeriche, sì, ma per me anche culturali): gli USA, patria del capitalismo per antonomasia, sono terreno fertile per una concezione della propria immagine destinata alla diffusione, alla “vendita” della stessa. Non ho dati a supportarmi, ma a sensazione, tornando al mio parallelismo iniziale, succede molto più spesso che streamer statunitensi passino dal competitivo all’intrattenimento, rispetto a streamer non statunitensi che invece sono meno inclini a snaturarsi (o reinventarsi, chiamiamolo come ci pare).
Comunque, al di là della questione “percettiva” degli Stati Uniti, il quesito resta: è davvero necessario (e, se sì, a cosa per noi che siamo il pubblico?) che quel top 1% di atleti professionisti investa sulla diffusione della propria immagine?
Ciao Ale, grazie per il commento, articolato e chiaro. Provo a risponderti per punti, andando anche io “di pancia”.
Ammetto di non capirci assolutamente nulla di gaming ma credo che il parallelo sia assolutamente pertinente, molto più di quanto lo sarebbe stato un qualsiasi rimando a un altro sport.
Rispetto al secondo punto mi verrebbe da risponderti (sempre con la solita pancia) che sì, sono relativamente certo che in ogni caso al professionista faccia comodo questo tipo di operazione di autopromozione. Per tante meteore che per un motivo o per un altro non arrivano, specialmente nei paesi più poveri (dove il denaro e la sussistenza restano la guida per le scelte di tanti atleti, e in questo senso vale quanto riportato nel pezzo sul doping di qualche mese fa), poter contare su uno stream di guadagno alternativo alla performance sportiva sarebbe una bella opportunità di svincolarsi dalle tentazioni di scelte sbagliate (come il doping stesso). Certo, il punto di fondo che tu sollevi resta: la concentrazione di denaro e di pubblico disposto a spendere per la propria passione è negli US, ma il fatto che si investa su questo verticale geografico mi sembra una conseguenza di questo e nulla più.
Sull’ultima domanda, farei più attenzione. L’1% dei top runner è quello che in ogni caso da premi gara e consistenza dei contratti avrebbe meno bisogno di investire (detto che l’immagine resta un asset per la transizione al post carriera sportiva, un tema tanto interessante quanto decisamente poco investigato per i runner). È quello che c’è appena sotto che si trova in un limbo leggermente più a rischio.
Eccomi! Chiarissimo, grazie per la risposta. Ripensandoci, e anche in virtù della tua risposta, mi viene un ulteriore interrogativo: d’accordissimo sul discorso dello “stream di guadagno alternativo” per gli atleti “meteora” appena dietro l’1% che ha effettivamente successo sufficiente “solo” grazie all’attività sportiva; ma la sponsorizzazione social è davvero l’unica via “alternativa”? Non possono esisterne altre? (Domanda non retorica). E - sempre non retoricamente - pensi che il fatto che atleti “mediocri ma creativi” sfondino sui social, chiuda automaticamente le porte dei social agli atleti “del limbo”? Mai messe così tante virgolette in un testo 😂. O, formulandola da un altro punto di vista: giunti a questo stadio della riflessione, secondo te cosa frena gli atleti del limbo dal percorrere questa strada? Scarsità di visione? Scarsità di creatività? Scarsità di mentalità imprenditoriale? Mancanza di attenzione/interesse al proprio futuro? O banalmente mancanza di soldi e possibilità? In fondo, sfondare è difficile ma il bello dei social è che l’opportunità di provarci ce l’hanno praticamente tutti.
A beneficio di tutti i lettori di commenti: sul tema divise fighe segnalo il lavoro di Gente Fuori Strada con WildTee e Alessandro Locatelli nel 2020 e quello di Runaway ASD con Diadora nel 2024. Secondo me in entrambi i casi lavori bellissimi, molto diversi ma credo perchè diverse le caratteristiche delle due associazioni e degni di citazione proprio perchè in grado di trasferire sulla divisa i "valori" della squadra.
Mi vengono in mente un paio di riflessioni sul primo punto. La prima in realtà, più che una riflessione, è un parallelismo: pro player vs content creator nell’ambito del gaming. Basta semplicemente confrontare i dati degli stream su Twitch dell’uno e dell’altro per capire chi ha maggiore risonanza, quello bravo a giocare o quello bravo a intrattenere. Tra l’altro, trattandosi di un campo in cui i valori cambiano molto in fretta (tra i 16 e i 18 anni già c’è grossa differenza per i tempi di reazione, se pensiamo agli sparatutto FPS tipo Valorant o Counter Strike), è molto comune che ex pro player decidano di passare dall’altro lato, abbandonando il competitivo per passare all’intrattenimento.
La seconda riflessione è applicabile sia all’atleta professionista vs atleta amatore content creator, sia all’esempio più su: siamo sicuri che il professionista (runner, gamer, quale che sia) sia necessariamente interessato a sponsorizzare così tanto la propria immagine? Mi viene da pensare, sempre ad esempio, a come viene generalmente concepita la corsa, da un punto di vista culturale, da parte di Kenioti ed Etiopi; e infatti la fetta grossa degli influencer sta - anche in questo campo, come sempre - negli Stati Uniti (per questioni statistico-numeriche, sì, ma per me anche culturali): gli USA, patria del capitalismo per antonomasia, sono terreno fertile per una concezione della propria immagine destinata alla diffusione, alla “vendita” della stessa. Non ho dati a supportarmi, ma a sensazione, tornando al mio parallelismo iniziale, succede molto più spesso che streamer statunitensi passino dal competitivo all’intrattenimento, rispetto a streamer non statunitensi che invece sono meno inclini a snaturarsi (o reinventarsi, chiamiamolo come ci pare).
Comunque, al di là della questione “percettiva” degli Stati Uniti, il quesito resta: è davvero necessario (e, se sì, a cosa per noi che siamo il pubblico?) che quel top 1% di atleti professionisti investa sulla diffusione della propria immagine?
Ciao Ale, grazie per il commento, articolato e chiaro. Provo a risponderti per punti, andando anche io “di pancia”.
Ammetto di non capirci assolutamente nulla di gaming ma credo che il parallelo sia assolutamente pertinente, molto più di quanto lo sarebbe stato un qualsiasi rimando a un altro sport.
Rispetto al secondo punto mi verrebbe da risponderti (sempre con la solita pancia) che sì, sono relativamente certo che in ogni caso al professionista faccia comodo questo tipo di operazione di autopromozione. Per tante meteore che per un motivo o per un altro non arrivano, specialmente nei paesi più poveri (dove il denaro e la sussistenza restano la guida per le scelte di tanti atleti, e in questo senso vale quanto riportato nel pezzo sul doping di qualche mese fa), poter contare su uno stream di guadagno alternativo alla performance sportiva sarebbe una bella opportunità di svincolarsi dalle tentazioni di scelte sbagliate (come il doping stesso). Certo, il punto di fondo che tu sollevi resta: la concentrazione di denaro e di pubblico disposto a spendere per la propria passione è negli US, ma il fatto che si investa su questo verticale geografico mi sembra una conseguenza di questo e nulla più.
Sull’ultima domanda, farei più attenzione. L’1% dei top runner è quello che in ogni caso da premi gara e consistenza dei contratti avrebbe meno bisogno di investire (detto che l’immagine resta un asset per la transizione al post carriera sportiva, un tema tanto interessante quanto decisamente poco investigato per i runner). È quello che c’è appena sotto che si trova in un limbo leggermente più a rischio.
Eccomi! Chiarissimo, grazie per la risposta. Ripensandoci, e anche in virtù della tua risposta, mi viene un ulteriore interrogativo: d’accordissimo sul discorso dello “stream di guadagno alternativo” per gli atleti “meteora” appena dietro l’1% che ha effettivamente successo sufficiente “solo” grazie all’attività sportiva; ma la sponsorizzazione social è davvero l’unica via “alternativa”? Non possono esisterne altre? (Domanda non retorica). E - sempre non retoricamente - pensi che il fatto che atleti “mediocri ma creativi” sfondino sui social, chiuda automaticamente le porte dei social agli atleti “del limbo”? Mai messe così tante virgolette in un testo 😂. O, formulandola da un altro punto di vista: giunti a questo stadio della riflessione, secondo te cosa frena gli atleti del limbo dal percorrere questa strada? Scarsità di visione? Scarsità di creatività? Scarsità di mentalità imprenditoriale? Mancanza di attenzione/interesse al proprio futuro? O banalmente mancanza di soldi e possibilità? In fondo, sfondare è difficile ma il bello dei social è che l’opportunità di provarci ce l’hanno praticamente tutti.