Speciale Olimpiadi: gare e personaggi del cuore
Una serie di episodi speciali per analizzare e commentare i momenti più epici di Parigi 2024. Un ultimo episodio: gare di atletica che per vari motivi faranno Storia (almeno nel mio cuore)
Questo è l’ultimo episodio speciale dedicato alle Olimpiadi: da domenica prossima ACPQC? tornerà alla sua solita cadenza settimanale. Vi è piaciuta questa serie un po’ diversa dal solito? Mandatemi feedback, commentate, ditemi la vostra: vi leggo!
Mentre nella notte di Parigi si teneva la messa da requiem per le Olimpiadi 2024, al sole delle due del pomeriggio di Venice Beach, Los Angeles, all’ombra di quel Parnaso chiamato Hollywood - la dimora che gli americani privi di un impianto mitologico si sono costruiti per le proprie muse, del cinema e dello sport - si faceva festa. Flea esegue la sua solita danza sensuale, il basso sotto spalla, mentre John Frusciante tira fuori dalla sua Tele tutta graffiata il riff di Can’t Stop. Il gioco di specchi con Parigi è immediato: per un’Olimpiade che muore ce n’è un’altra, quella di Los Angeles 2028, che nasce, e lo spettacolo non si può fermare.
Mi piacerebbe convincermi che fosse vero, e che le Olimpiadi, esattamente come lo spirito olimpico, sono immortali. Invece c’è da venire a patti con la fine dei Giochi. La sensazione post Olimpiadi, almeno per me, è quella di una classica esposizione a un surplus di informazioni che il mio cervello non sa gestire. Un po’ come accade durante la prima settimana di lavoro. Tutti i nuovi colleghi si presentano, ognuno con la stessa vigorosa stretta di mano e con lo stesso sorriso di serie sulla faccia (cosa che contribuisce ad aumentare esponenzialmente la possibilità di confondere Mario con Maurizio, Elisa con Elisabetta e Massimo con Massimiliano durante il pranzo in mensa); intanto la buonanima incaricata di affiancarti per presentarti a tutti - come un prosciutto vinto alla tombola del paese - ti elenca una serie di task: tutti egualmente importanti. Alla fine se ne esce con un: «ci sono domande?». Per non fare la figura dello scemo tiri fuori il più convincente «Tutto chiaro!» possibile. E poi la tua testolina bacata da overthinker comincia con il suo flusso «Oddio, non gli ho fatto domande, penserà che non sono stato veramente attento». Provi a riparare con un «Eh, sono tante informazioni per essere il primo giorno, facendo le cose sicuramente qualche domanda mi verrà. Potrò chiedere a te?». La buonanima annuisce senza risparmiarti uno sguardo perplesso.
Ecco, le Olimpiadi sono la stessa cosa. È tutto bellissimo, sono iper stimolato perché ogni dieci minuti, da qualche parte, succede qualcosa di fantastico. Ma sento quel povero cristo dell’unico neurone del mio cervello che mi maledice. Già mandare avanti la baracca in questa specie di salamoia di 40 gradi non è facile e ora vuoi metterci pure ricordarsi tutto ma proprio tutto quello che succede tra piste di atletica, corsie di nuoto, postazioni da tiro a segno, pedane per la ginnastica, campi da tennis, ping pong, basket, pallavolo? Le facce di tiratori, ginnaste, nuotatori, velocisti, velisti, pongisti, tenniste, pallavoliste, astisti, pesisti?
Quest’anno ho cercato di essere previdente. Per venire incontro al povero neurone, durante questa edizione mi sono premurato di prendere un po’ di appunti, circoscritti alla sola atletica leggera. Poi, ovviamente, li ho sistemati, integrati con notizie, letture, dati e statistiche e me ne sono venuto fuori con questa specie di librone dei ricordi delle mie Olimpiadi: le gare che mi hanno colpito di più, le vicende che mi hanno colpito di più, i personaggi che mi hanno colpito di più dal tartan lilla di Parigi 2024.
Il risultato è questo esperimento; il mio diario del cuore sull’atletica ai giochi olimpici del 2024.
Ma Santo Cielo, Letsile!
Chiedermi quale sia stata la mia gara di atletica preferita è un po’ come chiedermi quale sia il brano più bello dei Beatles. Non lo so. Non lo voglio sapere; non lo voglio decidere. A riguardo non ho nulla da dire, e infatti non lo dico.
Quello che vi posso dire, però, è chi è stato il mio atleta preferito: Letsile Tebogo.
Sarò io che ho la memoria particolarmente corta, ma a parte forse uno sbarbato Bolt in una delle sue prime Olimpiadi (Pechino 2008, mi pare) non ho ricordo di nessun velocista che durante una finale cominci a esultare per la vittoria prima di avere effettivamente tagliato la linea del traguardo.
Quando ho visto Letsile Tebogo battersi il petto a dieci metri dall’arrivo della finale dei 200 metri la mia onesta reazione è stata: «Ma che cazzo fai?». Sì, va bene, c’è un’intera figura di distanza tra lui e Kenneth Bednarek con il suo testone fasciato di bianco - c’è chi dice alla Rambo, a me ricorda più Ralph Macchio in Karate Kid - e addirittura una figura e mezzo tra lui e Noah Lyles, il marito tradito dei 200 metri, arrivato in terza posizione.
Ma dico io, ma come ti salta in mente, caro Letsile? Te la abbono giusto perché poi sul tabellone, di fianco al numero 1 c’era il tuo cognome, Tebogo - che alcuni ancora storpiano in Tabogo nei commenti su YouTube, quando si lanciano in odi verso il tuo futuro radioso nell’atletica - come se volessero convincersi che l’universo in cui domini la velocità su pista non sia già l’hic et nunc che prende forma sotto ai loro occhi proprio adesso. A sua volta, di fianco al tuo nome, ovviamente, c’era la bandiera del Botswana, color celestino cerchiato di nero e bianco. E non era mai successo che quella bandiera, elegante e bellissima, comparisse di fianco al nome di un primo classificato ai giochi olimpici.
Cioè, Letsile, forse tu non ti rendi conto - o forse sì, ed è proprio questo che manda tutti un po’ fuori di testa. Fammi capire un po’. Gareggi contro Noah Lyles, che è il favorito - ma che dico favorito, favoritissimo: è campione del Mondo in carica, è l’atleta in attività ad essersi avvicinato di più al mitologico 19.19 di Bolt, se la mena sugli schermi di tutti quanti sul fatto che questa gara è «sua moglie», e da tre giorni (cioè da quando è diventato campione olimpico nei 100 metri) non fa altro che fracassare le palle a tutti sul fatto che «quando i miei avversari mi vedranno uscire dalla curva si deprimeranno». E tu che fai: in una gara di neanche 20 secondi, dove ogni millesimo può essere decisivo, sei così sicuro di avere un oro in tasca che a 10 metri dal traguardo cominci a esultare. E dopo la frenata droppi una di quelle esultanze silenziose, quelle che tra le righe del linguaggio del corpo fanno leggere «È tutto sotto controllo, lo è sempre stato».
Eppure, qualcosa non torna.
C’è qualcosa di idiosincratico nel modo in cui Letsile Tebogo gestisce l’esultanza di questa vittoria.
Da una parte c’è la badassery, condita dalle parole forti ringhiate a denti stretti contro il mattatore mediatico del track and field - «non posso essere il volto dell’atletica perché non sono arrogante e rumoroso come Noah». A imbastire la sua main character aura da distruttore dei sogni dell’establishment chiassoso e danaroso del tartan ci aveva già provato con un esperimento autopromozionale riuscito a metà, sotto le spoglie di un iceman che per mitigare il freddo del ghiaccio che gli scorre nelle vene si sfrega le spalle scoperte dal tank celeste, durante quel metateatro che è la presentazione degli atleti prima della finale dei 100 metri. Il ghiaccio si è sciolto al fuoco della finale dei 100 metri più veloce di sempre, che ha relegato un 9.86 (da medaglia d’argento ai mondiali di Budapest dell’anno precedente) a un gramo sesto posto, e mentre un bel ciotolone di parole riempiva la bocca di Noah Lyles (che le mangiava con il cucchiaio), reiterava per qualche giorno ancora la narrazione intorno a «Letsile Tebogo: il giovane di belle speranze che ci farà divertire. In futuro».
Dall’altra c’è un piano non tanto nascosto, quanto inusuale per uno sport di atleti che cannibalizzano il discorso intorno a sé stessi per apparire come superuomini. È un piano che va accolto e inserito nel quadro non attraverso la lente dell’epopea sportiva, ma va calato con il guanto di seta della gentilezza. Se Tebogo fosse un semplice badass il suo volto sarebbe impassibile, e basta. E invece, mentre sta frenando, le braccia che rimbalzano come palline impazzite, come due pezzi di carne inerti attaccati alla locomotiva che ha appena spinto il primo africano dove nessun atleta del continente era mai arrivato (a 19.46 nei 200 metri), sul suo volto di vincitore c’è quel sentimento che non ti aspetti: la rabbia.
Letsile Tebogo è un ragazzo di ventuno anni che ha appena vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi e sua madre non ha potuto vederlo, perché due mesi prima della gara se ne è andata. Sua madre che lo ha visto andare ad allenarsi in Italia, che lo seguiva ad ogni gara, che quando vinceva l’argento mondiale nei 100 metri era lì a bordo pista, come sempre, ma questa volta - la più importante - non c’era. O forse sì. Passati gli abbracci con Bednarek, smaltito il cameratismo con il resto degli atleti, mentre Lyles si prepara alla sua uscita di scena in carrozzella, Tebogo, già impigiamato nella bandiera del Botswana, slaccia la scarpa destra e mostra l’arancio fluo della tomaia interrotto da una targhetta bianca cucita sul tallone: in rosso ci sono la data di nascita - solo quella di nascita - e le iniziali della madre. Di sicuro lo ha guardato anche questa volta: da chissà dove, ma lo ha guardato. Chissà che non abbia addirittura corso con lui, viva, impressa nelle righe rosso fuoco di quella targhetta. «È tutto sotto controllo, lo è sempre stato». Era solo questione di tempo.
Ma non è finita.
Letsile Tebogo ha corso un’altra gara prima della fine delle Olimpiadi, la finale della staffetta 4x400 metri maschile.
La storia della velocità è piena di sprinter formidabili sui 100 e sui 200 metri che odiano i 400 metri - la distanza più brutale del track and field. Quando dico odio, intendo odio: roba tipo «Io odio i 400 metri» - firmato Usain Bolt, un più che discreto quattrocentometrista da 45,28 (sarebbe nella Top 10 italiana degli specialisti).
Bene, Tebogo si prende la quarta frazione della 4x400 metri. Il suo diretto avversario per team USA è Rai Benjamin, neo campione olimpico nei 400 metri ostacoli. Ma dai! Gli ostacolisti fanno quei tempi mentre scavalcano degli intralci, figurati senza gli ostacoli. Nessun sano di mente darebbe per favorito uno sprinter da 100 e 200 metri su un ostacolista specialista dei 400.
Quando i rispettivi compagni di squadra consegnano a Benjamin e Tebogo il proprio testimone, tra team USA e team Botswana ci sono due decimi pieni. Benjamin si mette davanti e comincia a condurre il giro; Tebogo gli si francobolla dietro. La ripresa aerea mostra il perfetto sincronismo tra le loro gambe, destro, sinistro, destro, sinistro. Anche i gesti meccanici della corsa come il richiamo al gluteo della gamba, o lo swing delle braccia sono coordinati: sembra di guardare uno di quei giochi geometrici allucinogeni dove figure complementari per forme e colori si scambiano di posizione, e ruotano fuori dal frame per lasciare spazio ad altre figure, e così all’infinito - o, ancora, un video di quelli satisfying, dove (che so) un muratore ha costruito una parete in mattoni talmente perfetta che l’ultimo mattone si insinua senza alcun tipo di fatica, completando il disegno.
Sull’ultimo rettilineo Tebogo rompe il pattern: aumenta la cadenza, prova a recuperare i due decimi. Ma gli ultimi 100 metri di una frazione da 400 non sono uguali agli ultimi 100 metri di una 200 metri. Il corpo invoca pietà, ma la linea del traguardo è più seducente di una vasca d’acqua gelata nel deserto. Tebogo si prende l’esterno, Benjamin regge l’urto. Arrivano praticamente appaiati, la figura dell’americano distintamente davanti.
Il Botswana è argento dietro alle spalle degli USA: i tempi di 2.54.43 e 2.5453 sono il secondo e terzo miglior tempo di sempre in una 4x400. Ma c’è di più: perché Tebogo il velocista si prende il suo 1-vs-1 nella sfida tra campioni olimpici con Rai Benjamin l’ostacolista specializzato nei 400. Ha corso l’ultima frazione in 43.04, contro i 43.13 di Benjamin, bravissimo a gestire il proprio tesoretto cronometrico di vantaggio.
Per un’analisi tecnica di quello che potrebbe essere il tempo teorico di Tebogo sui 400 metri vi rimando a questo video.
Io concludo i miei highlights sull’Olimpiade folle di questo atleta con un’immagine: il ritorno di Team Botswana a Gaborone, la capitale. Letsile Tebogo ha appena riportato a casa sua due medaglie, che sono il 50% delle medaglie vinte dal suo paese ai giochi olimpici (quattro in tutto).
Trentamila persone lo aspettavano.
A proposito di Rai Benjamin…
Il nome sembra quello di un jazzista.
Ma negli ostacoli di spazio per tempi dispari o sincopati non ce n’è. Ogni salto è regolare come la partitura in quattro quarti dritta dritta di un classico degli AC/DC. Non c’è niente da inventare: basta solo che cassa e rullante suonino sul primo e sul terzo. Tu tu pa tu tu tu pa tu tu tu pa...
Per aggiungere carne al fuoco rovente delle storyline da serie Netflix, il comparto mediatico che regola la narrazione social attorno alle Olimpiadi ha stabilito che la finale dei 400 metri ostacoli dovesse essere un affare a due. Rai Benjamin - questa sorta di eterno secondo piagato dalla sfiga e condannato a vivere sulle spalle degli ori di squadra nelle 4x400 (uno olimpico a Tokyo e due mondiali, a Doha e Budapest) - che sfida il regno di Karsten Warholm, un personaggio della mitologia norrena (le gutturali e dentali sorde del nome, assonante con Kraken, incutono un certo timore) che si allena a torso nudo a meno 20, scavando nella pista un canale in mezzo alla neve. I 400 metri a ostacoli sono almeno dal 2017 il castello inaccessibile di Warholm: la sala dei trofei è adorna di 5 titoli continentali tra outdoor e indoor, tre titoli mondiali, e un oro olimpico sovrastato da un enorme targhetta circondata di fiamme alte 45.94 metri che recita WORLD RECORD.
Poi i brasiliani si sono arrabbiati di brutto, perché la diarchia doveva diventare un triumvirato. Non si può lasciare fuori Alison Dos Santos: ossia colui che nel 2022, anno in cui Warholm stecca la finale, riesce comunque a mettere i bastoni tra le ruote a Benjamin, togliendo un’altra volta l’oro al povero americano. Per questa edizione dei giochi Dos Santos ha avuto la fantastica idea di tingersi i capelli del colore della pista di Parigi. No, voglio, dire: il colore è esattamente quello.
Warholm e Benjamin sono vicini di corsia, relativamente all’esterno, mentre Dos Santos, in terza, corre con l’odore del prato nel naso. Quando la gara parte le aspettative non sono deluse. I due grandi sfidanti sono insieme per tutto il giro, fino agli ultimi 100 metri: qui Benjamin comincia a levitare con una leggerezza che a Warholm manca e si invola tutto solo verso il traguardo, staccando il rivale di sei decimi. Dietro di loro, seguendo lo script al meglio, arriva come un fiore di lavanda Alison Dos Santos.
Il triumvirato è riunito sul podio e tutti i giornali sportivi americani urlano a squarciagola la stessa frase. Rai Benjamin FINALLY (l’avverbio c’è in quasi tutti i titoli e tweet online) got his olympic gold medal in the 400m hurdles.
Per quanto riguarda Warholm, la sua estate non è finita.
Karsten vs. Mondo
Non ci ho mai provato prima, per questo sono assolutamente certa che ci riuscirò. (Pippi Calzelunghe)
L’ultima volta che qualcuno ha vinto qualcosa contro Armand Duplantis era il 2019. Sam Kendricks (USA e bronzo a Parigi) batteva il ventenne Armand a 5.97 metri da terra.
Dal 2020 in poi, tra le tante cose che sono cambiate in giro per il globo c’è il fatto che quasi più nessuno chiama Duplantis per nome, e cioè Armand: quasi tutti lo chiamano Mondo - un soprannome bellissimo al di là del significato che la parola ha in Italia. Tra le cose che sono cambiate c’è anche il fatto che Mondo ha poi vinto tutte le gare che gli è capitato di fare (compresa un’Olimpiade, quattro mondiali e tre europei), con buona pace di astisti fortissimi come Sam Kendricks o Emmanouil Karalis (che abbiamo visto scatenato insieme alla squadra greca alla cerimonia di chiusura dei giochi). La soglia di 6 metri attorno alla quale gravitava già quando aveva vent’anni è casa sua in pianta stabile. Mondo è riuscito ad abbattere il suo stesso world record per nove volte in quattro anni, da 6.17 ai 6.25 di Parigi.
Ora, cosa c’entra Karsten Warholm?
A parte la storia del derby Svezia-Norvegia, a parte il fatto che sia Duplantis che Warholm sono detentori di record mondiali più o meno inaccessibili nelle rispettive discipline, i due lo scorso anno si sono sfidati in una gara sui 100 metri. E a quanto pare a un anno di chiacchiere e punzecchiature varie (tono amichevole, per l’amor del cielo) finalmente si è deciso che la gara si farà: Mondo e Karsten si sfideranno a Zurigo il 4 settembre, prima della lunga notte di Diamond League. Tra i loro PB dichiarati balla un decimo - Warholm è davanti con 10.49, contro i 10.57 di Duplantis.
Espiazione
Della 1500 metri maschile ho parlato estensivamente qui.
Ma non riesco a togliermi il finale di questa gara dalla testa. È un classico, è già un classico dell’atletica. Ha tutto: una grande campagna promozionale trainata dalla rivalità tra Jakob Ingebrigtsen e Josh Kerr, una gara presa per le corna dal primo dei due, che tenta di ammazzare subito la competizione, un field che tiene botta, e un finale così bello da sembrare inventato da uno sceneggiatore.
Kerr prova a infilare dall’esterno Ingebrigtsen, fotocopiando il finale del mondiale di Budapest 2023, in cui poi aveva trionfato. Ingebrigtsen lo chiude, ma dall’interno lo infila Cole Cocker che si teletrasporta a fianco a lui dal nulla sfruttando le sue enormi capacità sugli ultimi 300 metri. Ingebrigtsen, spompato dalla tirata, è una toppa troppo piccola per fermare entrambe le perdite, e si sveglia dall’incubo come un sognatore di Inception colpito da un kick. L’incubo nell’incubo, poi, gli si materializza davanti sotto le spoglie di Yared Nuguse, che gli leva il podio con la rimonta finale per il bronzo. Più tardi la notte di martedì 6 agosto una versione inedita di Jakob Ingebrigtsen, questa volta rivestito degli abiti della contrizione, si congratula con Hocker, Kerr e Nuguse con un post su Instagram: «they outsmarted me».
Jakob formato 5000
Mentre Kerr gongola in televisione come avesse vinto l’oro con record del mondo, Ingebrigtsen non fa in tempo a finire il suo pianto purgatoriale che il giorno dopo è in pista per le batterie dei 5000 metri. Passa agevolmente, non senza qualche accenno di polemica per un cameraman che, ignaro di tutto, stava facendo una passeggiata in pista durante le gare.
La finale di sabato sera è il regno di Jakob. Questa volta il field impacchettato di talento non basta a frenare il norvegese rinovellato di novella fronda. Ingebrigtsen fa una gara sorniona, appoggiato sul ritmo non proibitivo tenuto dagli etiopi in testa. L’unico vero rischio che si concede a livello tattico è quello di rimanere imbottigliato nel traffico sul lato interno della pista al penultimo giro, quando le trame delle fughe vengono a galla. Ingebrigtsen apre gli ultimi 500 metri divincolandosi definitivamente dal guscio del gruppo; supera la prima coppia di etiopi e si lancia all’inseguimento dell’atleta di testa. Un primo piano mostra il suo viso: l’espressione è quella che potrebbe avere un buon amatore che fa jogging in Zona 2.
A 300 metri dal traguardo, mentre gli ultimi disperati tentativi di ricucitura disgregano il gruppo come un atomo in un esperimento di fissione nucleare, Ingebrigtsen rompe tutti gli indugi, ruba il tempo al leader e trotta da solo davanti a tutti, per chiudere la gara con due secondi di vantaggio sul secondo classificato. L’Etiopia resta fuori dal podio: perché il secondo posto è conquistato da Ronald Kwemoi - lo specialista keniano della disciplina - e il terzo dalla prova straordinaria dello statunitense Grant Fisher.
L’immagine finale è il grottesco ritratto di Ingebrigtsen in piedi, rilassato, le braccia lungo i fianchi, che fa slalom tra i suoi avversari distrutti: stesi a terra, le mani sui fianchi, sulle ginocchia, i volti piegati dallo sforzo. È una Cappella Sistina di dannati: ognuno espia la propria condanna come crede, come si sente. Il tocco taumaturgico del superstite eretto, che tende la mano per congratularsi, apre nel dolore fisico dei volti distrutti dalla fatica il varco per un accenno di sorriso. I movimenti sono composti, quasi ingessati. Con un moto quasi primitivo e selvaggio del corpo, Jakob Ingebrigtsen si lascia finalmente andare solo quando può suonare la campana della vittoria. L’espiazione è compiuta, il riscatto verso sé stesso e verso il mondo è saldato.
Heartbreak Hotel
4x100 maschile
Il povero Christian Coleman è un atleta che dal talento con cui è stato baciato ha cavato troppo poco, soprattutto a livello olimpico. Poteva ragionevolmente vedere in Parigi l’ultima fermata per prendersi almeno una gioia a cinque cerchi. Il treno era un direttissimo di ultima generazione, di quelli che fanno i 300 all’ora. È vero: mancava il pilota più quotato, Noah Lyles, messo KO dal Covid. Ma una squadra composta da Chris Coleman, Kenneth Bednarek, Fred Kerley e Kyree King resta l’unico faro nella notte di un field fumoso, una di quelle situazioni in cui tutto può succedere. La botta sicura questa volta era sicurissima.
Ma il direttissimo di Coleman ha un guasto in galleria, e il treno USA si arena al primo cambio, con un pasticcio tra Bednarek e Coleman stesso. La coperta di King e Kerley è troppo corta per fare qualcosa di meglio che un settimo posto; e comunque Team USA non è salvo dallo stigma del DQ - Disqualified. La spunta il buon vecchio Andre De Grasse con il Canada, e qualcuno è cinico abbastanza da commentare: «è incredibile vedere che, per quanto De Grasse faccia stagioni terribili nell’anno olimpico, poi riesca sempre a portarsi a casa una medaglia».
L’Italia quasi perfetta a guida Jacobs-Tortu, i due volti più globlamente riconosciuti della generazione d’oro di sprinter italiani, vince una delle sue 19 chocolate medal.
Da Nadia a Nadia
A proposito di chocolate medal italiane, se ce n’è una in cui il cacao è più amaro delle altre è quella dei 5000 metri femminili. Siamo nel terreno di caccia di Kenya ed Etiopia e di poche altre atlete, quelle che hanno«la macchina genetica “da fondo” come le africane», per stare con le parole di Sandro Modeo. Nel field il numero delle atlete con queste caratteristiche si riduce essenzialmente a due: Sifan Hassan, olandese - ma l’indicazione della pronuncia Oromo del nome ne colloca le origini in Etiopia - e Nadia Battocletti, italiana dalla Val di Non, alta sul livello del mare - neo campionessa europea sia sui 5000 che sui 10000 metri.
Mentre la vittoria diventa un drama tutto keniano tra Beatrice Chebet e Faith Kipyegon, Batocletti dalla settima posizione ricuce con gamba e pazienza i buchi del gruppo sfilacciato dall’ultimo giro, e arriva quarta dietro a Sifan Hassan. Poi il caos: Faith Kipyegon, la seconda classificata, viene squalificata per una presunta trattenuta, al principiare del penultimo giro, su Gudaf Tsegay, l’etiope che detiene il record del mondo. Nadia Battocletti è medaglia di bronzo per un paio d’ore, prima che il ricorso accolto del Kenya non riporti argento e bronzo al collo delle rispettive vincitrici su pista.
Ma quattro giorni dopo c’è spazio per rifarsi - non l’ho detto o pensato io, ma la diretta interessata ai microfoni RAI.
Le condizioni alla partenza non sono rose e fiori, c’è un tendine che fa male e il rodaggio che ha portato Nadia Battocletti in pista è stato conservativo: un alternarsi di massaggio e riposo, massaggio e riposo. Sulla linea di partenza la campionessa europea c’è, con la stessa caparbietà che è stata il leitmotiv tricolore degli ultimi giorni di Giochi - il traino è quello dell’istrionico esempio di Gianmarco Tamberi: che piaccia o no, se ne parla, un po’ come per Lyles: non è questo che fanno le superstar?
La gara è impostata sulle tonalità fosche dello studio - o per noi cinici, della paura. Nessuna atleta che abbia nelle gambe la forza di scappare si sente di fare la mossa decisiva. Le azioni decisive sono procrastinate: ci sentiamo ai giri finali. Qui, un gruppo di maestre della fuga dell’ultimo giro - su tutte Sifan Hassan (ancora lei) e Nadia Battocletti - sono nelle condizioni ideali per spaccare la gara con le loro progressioni. All’inizio dell’ultimo giro Battocletti vive un solo pericolo: rimanere ingolfata nel traffico della bagarre. Trovare il momento giusto per partire è una sensibilità da artisti della pista: per 200 dei 400 metri dell’ultimo giro Nadia segue la scia del cambio di ritmo delle keniane davanti a lei, senza uscire allo scoperto. Poi, quando le etiopi (e Hassan) sono neutralizzate, brucia una troppo generosa Margaret Kipkemboi sull’esterno e va all’assalto di Beatrice Chebet, sorpresa dalla reattività dell’italiana. Lo strappo manca per un decimo di secondo l’aggancio all’oro, ma vale un argento memorabile.
L’urlo di gioia di Nadia Battocletti è istintivo, è il sollievo di chi ha scommesso su sé stessa e alla fine ha avuto ragione. Credo che sia l’immagine da appendere all’ingresso degli spogliatoi di ogni campo di atletica, iconica come l’urlo di Baldini ad Atene 2004. La cartolina perfetta per il 2024 dell’atletica italiana.
Ah quasi dimenticavo: e il suo 30.43.55 è Record Nazionale.
I 67 chilometri di Sifan Hassan
Tre atlete hanno vinto tre medaglie in tre gare a Parigi.
La prima è Gabby Thomas: in singolo ha vinto un oro nei 200 metri passando in scioltezza la neo campionessa dei 100 metri Julien Alfred (la prima medaglia nella storia dell’isola caraibica di Saint Lucia, una bella storia), e in squadra ha vinto la 4x100 e la 4x400 (insieme a quel treno chiamato Sidney McLaughlin, l’atleta forse più emblematica dell’intera edizione dei giochi per forza e per carattere, campionessa dei 400 metri ostacoli femminili con record del mondo). Gabby Thomas porta a casa da Parigi questi tre souvenir e forse li sistemerà vicino alla cornice contenente un pezzo di carta con sopra il suo nome rilasciato da Harvard: una laurea in neurobiologia (a cui ne sta aggiungendo un’altra), giusto per non doversi preoccupare del fine carriera.
La seconda è Femke Bol, dall’Olanda, un fenomeno generazionale che dal suo arrivo sulla scena ha travolto il mondo dell’atletica europea come un uragano. Nella stessa 400 ostacoli di Sidney McLaughlin, presentata come uno scontro decisivo tra le due atlete (l’ennesimo), Bol molla la presa sugli ultimi 100 metri, scivolando terza contro i pronostici che la vedevano favorita per una delle prime due posizioni. Nella 4x400 femminile, con le atlete statunitensi scappate sulle ali della solita McLuaghlin in seconda frazione, Femke Bol riporta l’Olanda alla luce dell’argento dopo 1200 metri di apnea, in una frazione monstre culminata in 100 metri rabbiosi con cui salta Inghilterra e Irlanda. Il capolavoro di Bol è l’oro nella 4x400 mista, dove sempre negli ultimi 100 metri ricuce il gap dagli statunitensi (che stavano già cantando lo Star Spangled Banner) e acciuffa il primo posto per i capelli di una volata sensazionale. Questa è una gara da non perdere.
La terza atleta a vincere tre medaglie è un’altra olandese, e due delle sue tre medaglie le abbiamo già raccontate - bronzo nei 5000 e il bronzo nei 10000 metri. Dopo quindici chilometri di gara, alla settimana di Sifan Hassan manca solo una garetta: la maratona femminile. Abbiamo un precedente illustre di un atleta capace di andare a medaglia tre volte su 5000, 10000 e maratona. Era il 1952, l’atleta era Emil Zatopek e per soprannome aveva la locomotiva umana. Il metallo delle medaglie della locomotiva era l’oro in tutti e tre i casi.
L’imitazione di Hassan raggiunge il suo apice più alto proprio nella maratona. Delle amenità di un percorso unico e tribolato come quello di Parigi ne ho parlato estensivamente qui a compendio della maratona maschile. Che Hassan avrebbe dato del filo da torcere a un pacchetto atlete composto da maratonete con le unghie affilatissime - la detentrice del record mondiale Tigst Assefa e la campionessa di New York e Boston Hellen Obiri in testa, senza dimenticarsi di una guerriera come Sharon Lokedi - era una certezza. Lottare fino in fondo, con tanto di finale in volata è un’altra storia. Al chilometro 41.7 la maratona è una sfida a tre: Obiri, con la sua corsa scalena specialista in volate finali (ha vinto sia a New York che a Boston in volate protratte fino agli ultimi metri), è l’ombra di Assefa e Hassan, spalla a spalla. Qui l’indole tattica di una formidabile runner su pista come Hassan emerge nella forma di una lettura perfetta: Assefa prova a rubare il tempo alle avversarie. La fa ad Obiri, che resta tagliata fuori dalla corsa, ma non ad Hassan. Le due si involano per gli ultimi 200 metri della gara, Assefa leggermente avanti. Una semicurva a sinistra offre a Sifan Hassan lo spiraglio entro il quale provare a respirare per aprirsi il corridoio verso il nastro: qui cominciano le sportellate, nel vero senso della parola - Assefa stringe Hassan contro le transenne per mantenere la traiettoria: c’è una collisione. Hassan resiste, e si ritrova davanti. Con un paio di rapidi spostamenti elude la possibilità di diventare la scia per l’etiope al suo inseguimento, ma il gap che c’è tra le due ormai è incolmabile: Hassan è la prima a mettere piede sul tappetone blu dell’Esplande des Invalides, ed è la prima a tagliare il traguardo. Dopo 67 chilometri di gara percorsi in 6 giorni e due medaglie di bronzo, alla fine Sifan Hassan è medaglia d’oro, l’ultima assegnata durante i giochi, prima della cerimonia conclusiva.
Per chiudere storie belle servono finali belli. Era possibile fare meglio di così?
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