Speciale Olimpiadi: la maratona olimpica è stata un elogio all'ironia della sorte
Una serie di episodi speciali per analizzare e commentare i momenti più epici di Parigi 2024. Finalmente la maratona maschile: un'analisi della vittoria di Tamirat Tola su un percorso difficile
Il copione televisivo della maratona olimpica non sarebbe potuto iniziare in maniera diversa.
A un paio di minuti dalla partenza, a Place de Hotel-de-Ville, le telecamere indugiano su Kenenisa Bekele ed Eliud Kipchoge, vicini in prima fila; la regia internazionale proietta in mondovisione il primo piano della coppia più attesa. Kipchoge indossa il suo solito volto ieratico da busto di marmo di un oratore romano, che stona con il gradiente arancio-giallo fluo scelto da Nike per la divisa keniana. La testa è fasciata da una curiosa banda nera e bianca, adornata da una particolare giustapposizione di quadrati contigui, a loro volta formati da una trama di quelle che da lontano sembrano perline - diversi atleti la indossano, e diranno alcuni che è un sistema di termoregolazione che sfrutta un riciclo del sudore frontale. Bekele lancia un paio di occhiate all’orologio al suo polso prima di alzare lo sguardo e concentrarsi sulla fine del primo rettilineo, oltre le spalle del nume tutelare del suo paese, il biancovestito Haile Gebrselassie - chiamato al centro della carreggiata in qualità di mossiere simbolico della maratona olimpica. La divisa dell’Etiopia è più sobria: il canonico pantaloncino di un rosso intenso completato dal tank verde, orlato di un richiamo al giallo della bandiera. Era così quella di Gebrselassie, era così quella di Bikila.
I 42,195 chilometri di Parigi 2024 sono l’occasione per estrarre l’ultima stilla di gloria dalla carriera irripetibile di due atleti generazionali; vicini sulla linea di partenza oggi come vent’anni fa, prima delle sportellate di Atene 2004. Tutto quello che poteva essere scritto sul valore sportivo, simbolico e anche culturale dello scontro finale tra due dei più grandi interpreti del fondo e del mezzo fondo è stato più o meno scritto - dal ritorno a Parigi dopo 21 anni dal primo incontro mondiale agli incontri ad Atene e Pechino (Riccardo Rimondi fa una bella premessa dell’ultima danza). Il resto è la vacuità di pronostici che lasciano il tempo che trovano, e che timidamente continuano a dare Bekele e Kipchoge per favoriti.
Solo uno dei due concluderà la gara, trentanovesimo.
È tempo di gareggiare
Dopo la pioggia della sera precedente, la capitale francese si è messa il vestito buono per mostrare al mondo lo splendore dell’arte parigina attraverso il filtro del passaggio dei podisti.
Quando la gara olimpica comincia i piani simbolici vengono messi da parte. Il ricordo del grande assente Kelvin Kiptum, i significati del percorso (celebrazione della Marcia delle Donne su Versailles, durante la Rivoluzione Francese) e la poetica dello scontro tra Kipchoge e Bekele lasciano il posto all’unica vérite della maratona: quella dell’asfalto che si srotola per quaranta chilometri sotto alle 81 coppie di piedi. Le riprese aeree catturano nel fitto degli umbratili viali di Parigi lo sciame compatto degli atleti, una forma di plastilina ancora integra, destinata a deformarsi e sfilacciarsi sotto i colpi del gioco delle strategie.
Ci sono due contesti strategici entro i quali analizzare la maratona olimpica di Parigi.
Il primo è quello del profilo altimetrico del percorso, che suggerisce un piano gara abbastanza lineare, almeno dal punto di vista della gestione del dispendio energetico. La prima fase sarà conservativa, sulla lunga dolce spianata dei primi chilometri. Poi c’è da stringere i denti per aggredire la prima salita che spunta sul percorso, improvvisa come il Kilimangiaro, e che dal quindicesimo porta al ventesimo chilometro al picco di altitudine massima di 183 metri. Da qui, c’è da tenere a bada la golosità per il dislivello quasi negativo di una specie di altipiano che conduce dritti dritti nelle fauci di un’ascesa ciclistica al 13% di pendenza, al chilometro ventisette. Infine, la discesa ripidissima - trappola potenzialmente letale per i muscoli piagati dall’esosità delle salite - dopo la quale c’è da attaccare un finale liscissimo che riporta nel cuore di Parigi costeggiando la Senna.
Il secondo - più importante - è quello intrinseco alla natura della maratona olimpica in sé. Per atleti ossessivamente concentrati nella sfida al cronometro sui percorsi velocissimi delle Major e delle grandi maratone internazionali - Berlino, Londra e Chicago come Valencia, Siviglia e Rotterdam - disegnare una strategia per una gara come quella olimpica è già di per sé un’impresa ardua; applicare tale strategia facendo fronte alle macchinazioni degli avversari e alle variabili di imprevisti ineliminabili su distanze così lunghe è un rompicapo quasi impossibile. Non ci sono record del percorso da abbattere per sbloccare lauti premi in denaro, non c’è l’ausilio delle lepri: la maratona olimpica è uno sport di scontri uomo a uomo per le medaglie, dove il tempo conta niente, l’unica cosa ad avere rilevanza è l’ordine di arrivo dei primi tre classificati, e il caldo dell’estate reclama le sue vittime.
Come poi è effettivamente successo, è su questo secondo punto che tanti favoriti si sciolgono come neve al sole, collezionando tempi tra i più alti registrati in statistiche senza macchia.
L’oro di Tamirat Tola, o dell’ironia della sorte
Le vite dei maratoneti sono dalla parte opposta dello spettro rispetto a quelle dei centometristi. Delle esistenze dei secondi sappiamo tutto, o quasi: in parte perché quell’etichetta assolutamente arbitraria di uomini più veloci del mondo (perché la distanza relativa debbano essere i 100 metri non si è mai capito) desta una speciale attenzione da parte dei media; in parte perché i diretti interessanti ci tengono a raccontarcele con dovizia di particolari. La loro vita extra sportiva diventa una specie di estensione della scarsità di tempo che hanno a disposizione in pista per provare al mondo il proprio valore (si dice che l’intero tempo in gara di Bolt sia di appena 12 minuti) - ne parlavo qui.
Della maggior parte dei maratoneti, all’opposto, sappiamo poco, anzi pochissimo. Vale anche per atleti di elite. Vale anche se sei Tamirat Tola, 32 anni Etiopia, e prima della mattina del 10 agosto eri il campione del Mondo sulla maratona (2022, Eugene), l’ultimo iscritto all’albo d’oro della maratona più notoria del globo, quella di New York (vinta con record del percorso) - ne parlo qui - e di medaglia alle olimpiadi ne avevi già vinta una (un bronzo sui 10.000 metri a Rio 2016).
L’oro olimpico di Tamirat Tola è un esempio da antologia di ironia della sorte: lui a Parigi 2024 non doveva esserci. Di maratone preparatorie nella primavera 2024 non ne ha corse e i risultati di Kenenisa Bekele (secondo ad aprile a Londra in 2.04.15), Deresa Geleta (vincitore a febbraio a Siviglia in 2.03.27) e soprattutto della punta di diamante del team Sisay Lemma (vincitore sulle impervie colline di Boston e nel dicembre 2023 quarto uomo di sempre a scendere sotto le 2.02 ore) offrivano poche buone cause alla sua candidatura per un pettorale. Il 26 luglio il clamoroso ritiro di Sisay Lemma in seguito ad un infortunio riabilita Tola. Il poco che sappiamo della sua preparazione all’evento nei primi sei mesi del suo 2024 ce lo dice in un laconico messaggio dopo la gara: «essendo una riserva, mi stavo allenando con Sisay e il team per questa gara. Mi sono preparato bene, allenandomi duramente per poter vincere».
Sulla linea di partenza il suo personale di 2.03.39 (risalente al 2021) lo mette dietro a sette atleti. In una gara in cui i numeri contano poco, Tola si presenta al via consapevole di avere dalla sua un ottimo feeling con prove dalle caratteristiche simili a quelle di Parigi: sa impostare e mantenere i cambi di ritmo, è abile nel gestire i vantaggi creati dalle fughe in solitaria e la pressione del rientro da parte degli avversari; ha l’intelligenza per leggere i momenti della gara in cui sfruttare a livello strategico punti come pendenze e dislivelli.
La gara di Tola
Tamirat Tola segue un piano tattico simile a quello che lo ha portato a vincere la maratona di New York, il cui profilo altimetrico irregolare presenta tratti di similarità con il percorso olimpico. Quando intorno al settimo chilometro Eyob Faniel prova a impostare un tentativo di fuga anticipato per scombinare i piani di gara di tutti, Tola lascia fare. Nello split tra quindicesimo e ventesimo chilometro (sulla salita più lunga) cambia marcia e, complice il vistoso calo nel ritmo dell’italiano, guida una decina di atleti alla chiusura del gap con il fuggitivo. La sgasata definitiva arriva sul secondo strappo al 13% di pendenza, attorno al ventisettesimo chilometro, nel momento più difficile della gara - quello che ha presentato il conto a diversi favoriti, costringendoli a un finale straziante. Allo split del trentesimo chilometro una serie di favoritissimi perdono definitivamente contatto con il gruppo - su tutti il campione del mondo Kiplangat e il vincitore di Londra 2024 Alexander Munyao.
Dall’inizio dell’ultima ripida discesa Tola comincia a mettere da parte i secondi per costruirsi un importante vantaggio sui più pericolosi dei suoi inseguitori. Il belga Bashir Abdi, il keniano Benson Kipruto e il connazionale Deresa Geleta non scommettono sulla pericolosità della sua fuga, e il gap finisce per assestarsi attorno ai 15-20 secondi. Il tesoretto gli consente di gestire - pur, per sua stessa ammissione, con molti timori smascherati da continue occhiate lanciate alle spalle - un possibile rientro del terzetto negli ultimi dieci chilometri; la collaborazione tra gli inseguitori salta, e Tola vola sul tappetone blu dell’Esplande des Invalides. L’orologio della sua gara si ferma a 2.06.26: il record del compianto Samuel Wanjiru, in piedi da dodici anni, cade.
Da un punto di vista di gestione delle energie, la gara di Tola è un capolavoro: fa segnare un importante negative split di quasi tre minuti tra prima e seconda metà - passa al segno dell’half in 1.04.51 e chiude la seconda parte con un fenomenale 1.01.35. Gli split di 35esimo e 40esimo chilometro mostrano una forma fisica straripante: entrambe le frazioni sono chiuse in quattordici minuti - per un passo al chilometro ben inferiore ai tre minuti. Dopo di lui arrivano, distaccati di una ventina di secondi Bashir Abdi - bronzo a Tokyo 2020 e unico reduce del podio di quell’Olimpiade - e Benson Kipruto, l’unico della spedizione keniana a mettere una pezza a una giornata altrimenti disastrosa.
Una medaglia per l’Etiopia
L’oro di Tamirat Tola ha risanato un paio di ferite per un paese di tradizione podistica come l’Etiopia. Il primo vulnus è storico: il Paese non vinceva un oro nella maratona da ventiquattro anni, da Sidney 2000 - quando a trionfare fu Gezahegne Abera. La seconda ferita è legata all’estrema carestia di medaglie provenienti dal mezzofondo su pista - con un’ultima grande delusione prima della maratona nei 10 mila metri femminili dominati da un terzetto kenyano-italiano.
Quando lo intervistano, dopo la gara, Tola non si dimentica dell’atleta che ha sostituito, Sisay Lemma: «mi ha detto che sarebbe stato meglio ritirarsi, e che io avrei potuto fare una prova migliore della sua. È successo tutto grazie a lui. La vittoria è anche sua».
Il re è caduto
Dopo 5 minuti e 58 secondi dall’arrivo di Tola, a trentasette atleti di distanza dal connazionale, spunta sul tappeto blu dell’Esplande des Invalides Kenenisa Bekele. Un larghissimo sorriso distende il suo volto mentre taglia il traguardo, in una festa di bandiere etiopi ai lati della strada. È acclamato come un re, più di un re. Ha vinto la sfida nella sfida.
Ora c’è solo grande attesa per tributare l’Oscar alla carriera dell’altra faccia della medaglia, quella che, un po’ contro ogni pronostico, ha perso. E in fondo, chissene frega se ha perso: tutti attendono Eliud Kipchoge come fosse il vincitore. Passano gli atleti, passano i minuti: poco più di trentacinque dalla rottura del nastro sfila l’ultimo podista in gara, Bat-Ochiryn Ser-Od, detto “Ziggy” - 43 anni, dalla Mongolia.
Ma re Eliud, come lo chiamano alcuni sui social, ha abdicato tra il trentesimo e il trentacinquesimo chilometro. Per circa 45 minuti sui nostri schermi abbiamo visto nulla di diverso da quello che ci saremmo aspettati di vedere in una maratona nell’era di Kipchoge: una gara comandata dal keniano, la fascia che gli dà una vibe da trapper alla moda - per restare in tema di fatti parigini, Travis Scott, magari. Alla prima salita, però, diventa evidente che qualcosa non va. Si tocca il fianco, mentre perde posizioni. Gli atleti attorno a lui si preoccupano; la mano si sposta sul lombare. È incredibile come al di là del dolore riesca a mantenere nel gesto della corsa quella forma perfetta, una gioia per gli occhi degli esteti del gesto. Al venticinquesimo chilometro, a un minuto e cinquanta secondi dal pacchetto di testa le sue speranze di podio sono polverizzate; al trentesimo chilometro l’ultimo dispaccio prima del crollo. DNF.
In una maratona che si è presa la testa di tanti tra i favoriti, corsa a ritmi elevatissimi certificati dal record olimpico, Kipchoge e Bekele, ognuno con la propria croce con cui fare i conti, possono consolarsi con un fatto: il contesto di alto livello che oggi li ha risucchiati lo hanno creato loro due, con le loro rispettive carriere.
A proposito di ironia della sorte, come la mettiamo con il fatto che la sfida nella sfida tra Kipchoge e Bekele l’abbia spuntata quello che tra i due era stato piagato dal maggior numero di infortuni e che sicuramente meno dell’avversario aveva legato il proprio nome alle gare su strada? Altre volte negli ultimi due anni era successo che Kipchoge cedesse - è successo a Boston nel 2023 e in maniera ancora più evidente a Tokyo nel 2024. In entrambe le occasioni, minate da diversi tipi di difficoltà - a inizio aprile Kipchoge faceva i conti con chi lo accusava di avere avuto un ruolo attivo nella morte di Kiptum -, se ne è sempre fregato di come quei tempi alti per la sua media di percorrenza aliena avrebbero contaminato quel dato. Questa capitolazione ha un sapore diverso.
Ancora non sappiamo se la vita agonistica di Eliud Kipchoge sia ufficialmente finita. Sicuramente sappiamo per bocca sua che lo è la sua storia olimpica: conclusasi (ironia della sorte, guarda un po’) come quella di colui di cui era all’inseguimento, Abebe Bikila - DNF alla sua terza Olimpiade, quella di Città del Messico 1968 - di cui è stato la controparte keniana.
Il mio invito è quello a non dimenticarci di Eliud Kipchoge, e parlo non tanto di cose come il suo palmares. Parlo più di una sfera più alta del ricordo, di un livello emozionale. Non dimentichiamoci di quando Kipchoge ci teneva incollati alla tv ogni volta che correva, perché sapevamo che qualche record sarebbe potuto cadere. Non dimentichiamoci del suo mantra No human is limited. Sarà vero quello che dice l’ultimo claim tirato fuori per queste Olimpiadi da quello che è anche il suo sponsor - Winning isn’t for everyone - ma chi, se non lui stesso tramite l’esempio della sua carriera, ci ha mostrato che nonostante tutto forse è più vero quello che dice lui?
Outro: che fine ha fatto Noah Lyles?
Vi ricordate quando vi dicevo che Noah Lyles sui 200 metri «ha già praticamente un piede sul gradino più alto del podio»? E quando lui diceva che «quando gli avversasi mi vedranno uscire dalla curva si deprimeranno»?A me sembrano passati due mesi, in realtà è successo domenica sera, dopo la finale dei 100 metri. Queste affermazioni non sono invecchiate bene - Lyles è arrivato terzo nella sua finale (i 200 metri, appunto), inseguendo Letslie Tebogo e Kenneth Bednarek, per poi uscire di scena in sedia a rotelle in seguito a una specie di malore, da cui grazie a dio si è ripreso.
Il commento di Daniele Manusia alla lingua lesta di Lyles è uno dei miei preferiti, perché fa quello che la scrittura, quella che conta davvero qualcosa, dovrebbe fare: mettere in luce gli spigoli, le asperità, la complessità di un individuo astratto come può essere solo l’uomo più veloce del mondo per umanizzarlo; e parlare un po’ di noi. Scrive a chiosare sul rapporto tra le parole di Lyles e le sue azioni:
Il rapporto tra parole e fatti è sempre ambiguo e misterioso. Il rischio che le prime non coincidano con i secondi c’è sempre, anche quando si aspetta di vedere cosa succede e si cerca poi di descriverlo nel modo più oggettivo possibile, figuriamoci parlando prima. È un rapporto in cui anche quando c’è l’amore - come nella poesia - non è detto ci sia fedeltà. Viviamo cercando le parole giuste per comunicare fatti importanti e a volte falliamo, diciamo cose imprecise, o false, veniamo corretti da chi ci sta intorno, smentiti, ma d’altra parte i fatti da soli non ci bastano. L’opacità della realtà ci nasconde qualcosa a cui cerchiamo di arrivare con le parole, come pescatori che di notte lanciano l’amo nelle acque scure, sperando di pescare un pesce che non sappiamo neanche se esiste.
Leggete qui il pezzo completo.
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