Speciale Olimpiadi: e alla fine, spunta Noah Lyles
Una serie di episodi speciali per analizzare e commentare i momenti più epici di Parigi 2024. Si parte dalla vittoria di Noah Lyles nei 100 metri e dal film della sua medaglia d'oro
Sommario dell’episodio speciale:
Un’atletica a sua immagine
La strada verso l’oro
Sabato 3 agosto, batterie
Domenica 4 agosto, semifinali
La finale
Come Lyles ha costruito la sua vittoria
Aura. La buzzword di questi giochi olimpici è aura.
Ci sono atleti destinati a vivere circondati da un alone misterioso che li o le eleva a personalità pop. Ci siamo scervellati nel rintracciare ogni tipo di analogia attorno all’allure ipnotica di Kim Yeji (eroina di un manga, o sci-fi distopico e cyberpunk) o al fascino anticlimatico del suo collega turco Yusuf Dikeç - l’internet è arrivato ad accostarlo a un hitman che per non destare troppi sospetti avrebbe sbagliato di proposito una serie di colpi vittoria per mantenere la propria copertura.
Ci sono atleti inseguiti loro malgrado da un’aura di cui farebbero volentieri a meno: il caso più clamoroso è il povero Thomas Ceccon, cui gli houswives magazines nostrani hanno fatto la radiografia (non hanno perso tempo). Lui prova a sfuggire, prova a dirci in ogni modo «guardate che questo sono veramente io, io sono così sempre» e noi interpretiamo l’innocua leggerezza di ogni suo gesto in chiave escatologica. Thomas Ceccon fa qualsiasi cosa normale, come fare un pisolino all’ombra di un albero? Noi gli facciamo un profilo psicologico (da cui emerge che è una specie di genio incompreso) e mettiamo la foto del suo pisolino su tutte le prime pagine.
E poi ci sono atleti che l’aura la ricercano in maniera spasmodica, ossessiva: ogni loro gesto a favore di camera, ogni esternazione social, ogni affermazione è parte di un copione studiato nei dettagli più infimi. Il senso del racconto che fanno di loro stessi è tanto semplice quanto perentorio:
Io sono qui. Non temete.
Il prototipo perfetto dell’atleta assetato di aura è Noah Lyles, il nostro nuovo campione olimpico dei 100 metri; o anche l’uomo più veloce al mondo - titolo nobiliare assegnato di diritto alla medaglia d’oro sulla distanza.
Un’atletica a sua immagine
Noah Lyles è un freak atletico, e ancor prima mediatico. Non è un personaggio di immediata comprensione: ai più resta indigesto, specie se guardato attraverso la lente del contesto olimpico. La sua personalità da «direttore artistico» o «showman» (parole sue) a un primo colpo cozza con l’ascetismo olimpico, con le leggi di un fair play da portare avanti anche e soprattutto a livello comunicativo.
Lui si definisce promotore di un progetto a lungo termine per l’intera atletica leggera. Vuole uno sport più competitivo, più cool:
«gli altri sportivi sono considerati rock star, sono popolari. Deve essere uguale per l’atletica. Non sarò felice finché non sarà così», afferma Lyles nella prima puntata di Sprint, la serie Netflix dedicata ai centometristi.
Ora, c’è il cliché un po’ trito del fatto che tra gli sprinter e la gloria sia una questione di secondi: l’eternità di una medaglia d’oro o la condanna all’oblio è una questione di decimi, centesimi, millesimi. Al di là dell’assist immediato a livello narrativo, qualcosa di vero in questo c’è. Noah Lyles lo sa e proprio nell’interstizio sottilissimo, nella parentesi spazio-temporale brevissima del tempo effettivo di gara tenta di inserire la propria figura sovrabbondante, come se l’intero circo messo in piedi a ogni sua uscita non fosse che una dilatazione dei dieci secondi e rotti entro cui si consuma l’azione.
Lo spettacolo a Parigi non è stato diverso dal solito. L’Olimpiade è stata preparata innanzitutto a livello social. In primis da un corredo iconografico: un Noah cartoonized con tanto di costume da supereroe (mantello a stelle e strisce) come omaggio alla cultura pop e all’immaginario dell’infanzia a lui tanto caro - vedere il suo rapporto prediletto con le carte da gioco di Yu-Gi-Oh, o le esultanze ispirate a Dragonball. Poi è partito il tam-tam dei tweet celebrativi della gloria statunitense a Parigi: foto con Coco Gauff, retweet delle imprese di Katy Ledecky. La ciliegina sulla torta è l’endorsement sperticato della mascotte di team USA, Snoop Dogg. Il rapper si presenta per la foto identificativa ufficiale della squadra statunitense indossando una maglia su cui campeggia il sorriso bianchissimo di Lyles. La liason tra i due si era aperta a giugno durante i trials olimpionici di team USA: Noah Lyles e Snoop Dogg si sono presentati in coppia, il primo vestendo un abito Gucci X Adidas blu navy, il secondo una tuta olimpica e una valigetta che, aperta a favore di camera, rivela la carta di Yu-Gi-Oh con la testa di Exodia il proibito.
La strada verso l’oro
Se questa pièce teatrale fosse stata messa in scena da qualsiasi altro atleta staremmo qui a dirci: «bene, ora fai quello che hai promesso di fare». Con Lyles è diverso: sui 200 metri ha praticamente già un piede sul gradino più alto del podio. Per i 100 metri il discorso è leggermente più complicato: i pronostici entusiasti si sono mitigati in seguito a due mesi folli della coppia di giamaicani Kishane Thompson-Oblique Seville. Resta il fatto che escludere questo Lyles dal podio è una pazzia: e durante la finale olimpica dell’evento più atteso può veramente succedere di tutto.
L’oro olimpico sui 100 metri non è l’unico pezzo mancante nel puzzle che è la sua carriera da atleta generazionale in divenire (manca anche l’oro nei 200 metri). Sicuramente, però, è il più difficile da andare a pescare nel mucchio dei tasselli sparpagliati sul tavolo, e per questo è il più prezioso.
Il verdetto della scorsa finale olimpica è pesantissimo: settimo sui 100 metri. Si consola parzialmente sui 200, dove vince un bronzo tutto sommato deludente alle spalle dell’eterno Andre De Grasse e del suo connazionale Kenneth Bednarek. Un lavoro di due anni ha trasformato il suo assetto da duecentometrista puro in quello di uno sprinter micidiale anche su distanze più brevi. Arriva a Parigi da campione del mondo in entrambe le discipline, con pochissime possibilità di replica da parte degli avversari.
L’iter che a Parigi lo ha portato dalle batterie alla finale non è un insieme di tre gare, quanto un lungo, enorme episodio di poco più di trentasei ore (distanza tra batterie e finale, minuto più minuto meno) per la prossima stagione di Sprint.
Sabato 3 agosto, batterie
Le batterie non riservano grosse sorprese, i tempi sono alti (siamo pur sempre alle Olimpiadi), ma non stellari. È raro vedere prestazioni monstre da parte dei top con una domenica carica del peso di semifinali e finali in vista. Il lavoro dei big è amministrazione, studio, conservazione delle energie. Si annusano gli avversari, si prendono le misure con la pista, si fa la tara all’elettricità dell’ambiente. Chi scende sotto i dieci secondi (Kerley e Bednarek) lo fa di pochi centesimi. Il campione olimpico Marcel Jacobs registra un 10.05 tutto sommato modesto. Abbiamo tutti il cuore in pace: appurato il passaggio del turno, sappiamo che questo non basterà, ma per ora va benissimo così.
A pochi secondi dalla partenza della batteria di Noah Lyles, l’annuncio in pompa magna del campione del mondo allo Stade de France è accompagnato dal solito show di salti e baci lanciati agli spalti, dove il pubblico rimanda al mittente un’ovazione calorosa. Ma le cose non sono così semplici. Complici i soliti, noti problemi all’uscita dai blocchi di partenza - specie sui tempi di reazione (problemi su cui per la verità ha lavorato incessantemente negli ultimi tre anni) - la sua batteria è una lunghissima rincorsa, un’apnea da cui riemerge in 10.04 secondi, il suo tempo più lento in più di un anno di competizioni a livelli stellari. È secondo, visibilmente staccato dal mullet del britannico Louie Hinchliffe (9.98) e per poco non si fa prendere dal sudafricano Shaun Maswanganyi (10.06). La semifinale è acciuffata, ma il supereroe statunitense è apparso quasi appannato: è la meno convincente tra le superstar in gara. E allora è tempo di levare il mantello a stelle e strisce e fare ciò che sa fare meglio oltre a sprintare: parlare.
L’opacità della prova rende necessario un intervento a ribaltare a proprio favore la situazione, e a debellare i dubbi (legittimi) emersi dopo la sua prima prova. Intesse un discorso sul coraggio che può infondere lo spirito olimpico, fattore «che - ammette - ho sottostimato». Poi: «Quando qualcuno è su questa linea di partenza, sai che sta per dare il proprio tutto o niente» - commento che ha suscitato qualche sacrosanto «Ma va?».
Insomma, nuova (ennesima) pioggia di parole. E con Lyles quando piove grandina: «A essere sincero, sono ancora più carico non avendo vinto la batteria. In questo momento fossi nei miei avversari sarei spaventato…».
Domenica 4 agosto, semifinali
La sera della seconda domenica di giochi, la prima dell’atletica, comincia ad allungare le ombre allo Stade de France. I tempi distesi delle batterie sono un ricordo lontanissimo: davanti a frazioni che gravitano intorno ai 9.80 i runner up più convincenti passati in semifinale si squagliano come neve al sole torrido di Parigi - tra questi Louie Hinchliffe, che pure segna due tempi inferiori ai dieci secondi in due prove consecutive.
L’aperitivo prima del gran finale dei 100 metri è servito.
La tartina al salmone che prepara l’appetito di Noah Lyles per la finale si chiama Oblique Seville. Ancora lui: un piatto recentemente indigesto per il numero uno al mondo. Lo scorso giugno, al Racer Grand Prix in Giamaica, Seville è reo, in sequenza, di: aver battuto Lyles; averlo battuto con un 9.82 (Personal Best e World Lead); aver lanciato al Campione del Mondo uno stare down. Le immagini sono inequivocabili. La replica del diretto interessato arriva immediata su X:
Seville e Lyles conducono senza troppi problemi la prima semifinale. Il primo esce come suo solito benissimo dai blocchi e impone alla gara un ritmo da finale. L’unico a riuscire a matchare l’intensità del giamaicano è proprio Lyles. Il primo testa a testa di serata tra i due si chiude con un doppio stare down: intorno ai 90 metri Seville squadra Lyles, sulla linea finale Lyles guarda Seville. La punchline studiata dall’americano per alimentare lo show floppa al photo finish. Seville passa come primo in 9.81; Lyles è due centesimi più lento di lui, e colleziona il suo secondo posto a fila - il terzo tempo, di Hinchliffe, è un modestissimo 9.97. Lyles ha preso le misure alla competizione. Il favorito che correva la batteria in 10.04 e che aveva destato qualche dubbio ha fatto seguire i fatti alle promesse di battaglia.
La coppia Seville-Lyles può convolare in finale e portare sul palcoscenico più importante i propri screzi. A fare compagnia ai due ci sono una serie di mine vaganti (le più credibili sono Fred Kerley, Akani Simbine e Letsile Tebogo) e un terzo incomodo, homo novus dell’atletica e assoluto dominatore della competizione fino a questo momento: Kishane Thompson. Fisico erculeo, aplomb del velocista puro e, con grande timore della nazione più potente al Mondo, una tutina gialla nera e verde, la stessa che addosso a Usain Bolt ha relegato gli statunitensi a un digiuno dall’oro olimpico lungo un paio di decadi - ultimo vincitore USA sui 100 metri fu Justin Gatlin ad Atene 2004.
La finale
21.50 di domenica. Con il ritmo impartito dai giamaicani in semifinale tutti si chiedono quanto ancora più a fondo si possa scavare. L’ingresso di Noah Lyles in pista è una festa di salti a favore di tribuna - anche se l’urlo più alfa lo caccia il favoritissimo Kishane Thompson nella sua presentazione. Le perline che addobbano la chioma di Lyles se ne stanno immobili mentre lui continua a saltare: sistema i piedi sui blocchi dopo uno dei suoi famosi leap, un saltone a piedi pari nella ionosfera.
Dalla due alla nove: Bednarek, Kerley, Thompson, Simbine, Seville, Lyles, Tebogo, Jacobs. È la finale di più difficile accesso nella storia dei giochi olimpici: nessun atleta qualificato ha corso la semifinale con un tempo superiore ai dieci secondi. Seville e Lyles questa volta sono uno a fianco all’altro - nelle semifinali di un paio di ore prima erano distanziati da un atleta.
La partenza ritarda a causa di un presunto tentativo di invasione. Nell’intervista post gara agli atleti sul podio sarà chiesto se si siano accorti di nulla. Risposta: «No» (immaginate il muso allungato di Fred Kerley che vi sputa in faccia questa risposta dopo una sorsata di Powerade gusto lampone).
Al via è tutto buono. Come sempre sui 100 metri non basta una singola visione della diretta per capirci qualcosa. Dieci secondi sono veramente troppo pochi, e la finale di Parigi è quella con il minor scarto di sempre tra il primo e l’ottavo classificato - 0.12 decimi e otto atleti su otto sotto i dieci secondi, attributi che la rendono la finale olimpica dei 100 metri più veloce di sempre. Sono tutti lì. La prima impressione di praticamente tutti è che Kishane Thompson sia passato per primo - ne è convinto anche Noah Lyles. Si avvicina al giamaicano, che implora lo schermo «Come on man! Come on man!», e gli sussurra qualcosa come «I think you’ve got this big dog». È un fuori script: incrinare ora l’aura con cui si è approcciato tutto il percorso olimpico? Quando tutto è ancora in gioco?
Passano una ventina di secondi e il maxi schermo pontifica il suo veredetto: Lyles 9.79 (Personal Best), Thompson 9.79, Kerley 9.81. La differenza tra il tempo di Lyles e quello di Thompson sono cinque millesimi di secondo. La malizia del più navigato tra i due di buttare in avanti il busto, la parte del corpo che conta.
Lyles si strappa di dosso il pettorale con il suo nome sopra e lo offre al pubblico come fosse un’ostia consacrata. Prendete e ammiratene tutti.
Come Lyles ha costruito la sua vittoria
10, 20, 30, 40 metri: Noah Lyles è ultimo. Poi ai 60 metri si teletrasporta in terza posizione, dove rimane fino ai 90: gli ultimi quattro passi - di una lunghezza media di 2.5 metri - lo portano all’oro.
Noah Lyles è tra i peggiori atleti top per tempo di reazione: ultimo insieme a Tebogo in finale; ventiseiesimo dei ventisette semifinalisti; quarantasettesimo dei settanta atleti delle batterie. L’intero processo di uscita dai blocchi è storicamente il suo limite più evidente. A partire da questa premessa ha lavorato su di lui Ralph Mann, ex olimpionico statunitense, PhD in biomeccanica e una vita accademica dedicata ad affinare un gesto in particolare: l’uscita dai blocchi. Un’analisi approfondita ha mostrato nette zone grigie nell’intera esecuzione del processo: angoli da rivedere, lunghezza dei passi da rivedere, tempo di contatto a terra prolungato.
L’intero processo ha dato i suoi frutti nella stagione indoor, specie nei 60 metri - dove a febbraio ha guadagnato il titolo nazionale in 6.43 secondi. Tralasciando i soliti problemi di reazione, il lavoro con Mann ha messo Lyles nella condizione di uscire dai blocchi con angoli funzionali a mettersi nella posizione per guadagnare di velocità in fasi critiche della gara, dove maggiormente conta e dove sa di avere una marcia in più rispetto ai suoi avversari - il mantenimento della velocità di punta per lo spazio tempo prolungato degli ultimi quaranta metri.
Tornando alla finale olimpica, l’uscita dai blocchi è specialità tanto per Jacobs quanto per Seville (rispettivamente a destra e a sinistra di Lyles). Proprio la vicinanza con il giamaicano, usato come riferimento, viene considerata da Lyles un fattore determinante per la vittoria:
«Sono stato fortunato ad avere Seville vicino a me perché, per tutto l’anno, ha avuto quell’accelerazione che io non ero in grado di avere. Non lo avrei fatto scappare»
Seville e Jacobs sono terzo e quarto ai cinquanta metri, nel cuore della rimonta di Lyles (settimo a metà gara). Trovato il ritmo, lo statunitense è semplicemente il più forte a mantenere una velocità di punta spaventosa tra i sessanta metri e la linea finale: a questo riferimento spaziale (raggiunto in 6.44 - un secondo in più rispetto al suo personale indoor di febbraio) raggiunge la velocità monstre di 43.6 chilometri orari e la mantiene. Copre gli ultimi 40 metri in 3.35 secondi - contro i 3.38 di Thompson.
Il confronto tra gli ultimi venti metri di Lyles e Thompson è puramente matematico. Il primo segna: 0.84 ai 90 metri, e 0.86 sui 100. Il secondo 0.85 e 0.87. La somma tra i tempi di questi venti metri finali e il resto della prova ha come risultato il tempo finale di 9.79 per entrambi. A sua volta, la sottrazione di questi tempi, con l’aggiunta di un ulteriore decimale, abbona 0.005 millesimi di secondo al conto di Kishane Thompson.
Guadagnato l’oro più difficile della sua olimpiade (e forse della sua carriera) Noah Lyles guarda con fiducia alla sua gara, i 200 metri. La semifinale è conquistata con un sornione 20.19. Sfatato il ventennale tabù statunitense dei 100 metri è sempre la storia del suo paese che Lyles tiene nel mirino. Carl Lewis, Los Angeles 1984. Se centrare la doppietta 100-200 è per neanche troppo sotterranea ammissione del diretto interessato il minimo, fare tre con la staffetta 4x100 - fotocopiando il risultato finale dei mondiali di Budapest 2023 - sarebbe il coronamento completo dell’Olimpiade perfetta. Rumorosa, chiassosa, sopra le righe: estremamente efficace e letale.
Prepariamoci per nuovi fuochi d’artificio. Dopo la gara di domenica sera Noah Lyles ha aggiunto giusto un pizzico di pepe ai microfoni della BBC in vista del proseguimento dell’Olimpiade:
Spero che Noah vi piaccia, perché ve ne sta per essere servito ancora di più!
Articoli utili
L’analisi del The Athletic (sotto paywall)
Sempre il The Athletic sulla parlantina di Lyles in vista di Parigi
🏃🏻♂️ Ti è piaciuta A cosa penso quando corro? Come puoi sostenere il progetto
Se non lo hai ancora fatto, iscriviti alla Newsletter: ogni iscrizione è importante, mi motiva a credere in questo progetto.
Condividi A cosa penso quando corro? con amici, parenti, contatti, su Instagram, Twitter, Facebook, in un balletto su TikTok. Vedi tu!
Il Podcast Storie di Corsa: lo ascolti qui
Anche un like o un commento alla puntata sono utili!
Il mio profilo Instagram: @ban.zo_
Il mio profilo Strava: Lorenzo Bandini
Se questa puntata ti è piaciuta e ti va di sostenere questo progetto, sostieni A cosa penso quando corro? letteralmente al prezzo di un caffè al bar.