Speciale Olimpiadi: Cole Hocker è l'upset di queste Olimpiadi
Una serie di episodi speciali per analizzare e commentare i momenti più epici di Parigi 2024. La finale olimpica dei 1500 metri è stata una gara per i libri di storia
Ho il piacere di ospitare il secondo episodio di questa serie di approfondimento anche su Ultimo Uomo.
LEGGETE IL PEZZO QUI, su Ultimo Uomo.
In una corsa dei cavalli del 1919 a Saratoga, NY, Stati Uniti, il leggendario purosangue Man o’ War - il cavallo da corsa più forte di tutti i tempi secondo una giuria messa insieme da ESPN - perde una gara per cui era dato favorito. La sconfitta sarà l’unica della sua carriera e a batterlo è un cavallo sì, discreto, ma che avrà davanti a sé nulla più che una buona carriera, il cui apice sarà il dispiacere inflitto a Man o’ War (e agli scommettitori). Il nome del cavallo è Upset.
Una popolare leggenda, poi sfatata, vuole che a partire da questo ribaltone il lessico giornalistico americano abbia mutuato la particolare accezione del termine upset per indicare la clamorosa vittoria di uno sfavorito - il ché, beninteso, non lo rende un termine unicamente sportivo: vedere la ricca storia di upset nella storia politica statunitense (una breve ricerca online vi mostrerà un’intera antologia di titoli giornalistici che raccontano del political upset di Trump ai danni di Hillary Clinton nel 2016).
La vittoria di Cole Hocker nella finale dei 1500 metri maschili è l’upset perfetto di queste Olimpiadi.
I nerd del track and field ci hanno messo poco a rivendicare il fatto che sì, loro sapevano benissimo chi fosse Cole Hocker già prima che diventasse medaglia d’oro olimpica; e che no, in fondo la vittoria di Hocker non è poi tutto questo upset. Certo, non conoscere Cole Hocker è una mancanza veniale sulla scala delle possibili mancanze nel fittissimo storico dell’atletica leggera (specie alle porte di un'Olimpiade così ricca di storie): 23 anni, seconda Olimpiade con Team USA, discreta esperienza internazionale coronata da un argento nei mondiali indoor di Glasgow a inizio 2024. Poco altro, e comunque risultati riconducibili alla sua fitta esperienza al College - roba molto USA-centrica. Insomma, ai più - compresa buona parte dei suddetti nerd - non è passato neanche per l’anticamera del cervello che sul gradino più alto del podio ci potesse finire lui: e, in ogni caso, a (quasi) nessuno è passato per la testa che l’oro dei 1500 metri potesse essere al collo di qualcuno che non fosse Jakob Ingebrigtsen o Josh Kerr.
Il norvegese e il britannico hanno passato gli undici mesi che hanno preceduto Parigi 2024 a montare uno dei dualismi più accesi nella storia recente dell’atletica. A non tutti sono piaciuti l’enfasi con cui la stampa di settore ha trattato la questione, né tantomeno i toni con cui i due si sono affrontati verbalmente. Eppure, i presupposti per la credibilità dello scontro ci sono tutti e all’incendiario battibecco social ha fatto seguito un botta e risposta in pista che ha elevato la situazione dal polverone del gossip alla dignità di una rivalità vera e propria. Entrambi sono veloci, entrambi sono vincenti: entrambi hanno una lingua tagliente e nessuno dei due si risparmia nell’usarla. Entrambi, ça va sans dire, sono invisi a una larghissima fetta di pubblico. Il materiale che hanno partorito in questi mesi tra interviste, dichiarazioni, prove su pista (e canzoni pop) è roba da serie Netflix sul mezzofondo (già che ci siamo, manca solo questa).
L’escalation tra i due è stata rapida e improvvisa quanto può esserlo la fiammata di un’azione decisiva nella finale dei 1500 metri di un mondiale: quello di Budapest 2023. Dobbiamo tornare a questa manifestazione, a fine agosto del 2023, per ricostruire il quadro completo della loro rivalità, il traino narrativo che ha condotto i 1500 metri maschili alle Olimpiadi di Parigi.
Il casus belli
Prima di Budapest del 2023 la storia tra Ingebrigtsen e Kerr era quella di due atleti che stavano più o meno pacificamente facendo i conti con le proprie carriere. Jakob - rampollo di una dinastia familiare portata avanti dai fratelli maggiori Henrik (campione europeo sui 1500 metri) e Filip (campione europeo nei 1500 metri e bronzo mondiale sulla stessa distanza) sotto la guida del padre - stava forgiando la sua immagine di enfant prodige dell’atletica norvegese, capace ad appena ventitré anni di dominare su 5000 metri (due titoli mondiali, tre titoli europei), 3000 metri (tre titoli europei indoor, uno outdoor alla Diamond League) e 1500 metri (oro olimpico condito da quattro ori europei tra indoor e outdoor). Josh Kerr, dopo una carriera under promettente, aveva pescato un bronzo olimpico a Tokyo (alle spalle di Jakob) e divideva lo scettro del mezzo fondo inglese con l’amico Jake Wightman - campione del mondo sui 1500 metri a Eugene nel 2022 proprio ai danni di Ingebrigtsen.
Budapest 2023. Se volessimo trovare un casus belli che possa fare da Rubicone per l’inizio delle ostilità dovremmo risalire alla seconda semifinale dei 1500 metri - un concentrato di talento in cui insieme a Ingebrigtsen e Kerr, si scontravano il campione del mondo 2019 Timothy Cheruiyot e (guarda guarda) Cole Hocker. Ingebrigtsen decide di attenersi a un piano gara quantomeno bizzarro, un ibrido tra una strategia vera e propria e un mind game di quelli da villain dell’intera serie. Si nasconde nelle ultime posizioni per buona parte della gara, poi al suono della campana che segnala l’inizio dell’ultimo giro risale, risale e risale fino a vincere sull’ultimo rettilineo. Il piano è eseguito anche meglio di come deve essere stato pensato, ma per esagerare Ingebrigtsen aggiunge un twist particolare, un ingrediente segreto al gusto strafottenza. Sull’ultima curva, a circa 200 metri dal traguardo, mentre sorpassa tutti dall’esterno e si appaia a Josh Kerr, che aveva condotto praticamente tutta la gara, comincia a incitare il pubblico sugli spalti con un braccio. Il gesto è quello della mano che va su e giù, a dire “non vi sento, fate casino per il campione”. Chiude lo show con un’esultanza post gara ambigua, per almeno tre motivi: perché grottescamente esagerata, specie al termine di una semifinale; perché comincia già qualche metro prima di aver superato il traguardo; perché viene fatta in faccia a Josh Kerr.
La finale di tre giorni dopo sembra una formalità: pochi si sognano di questionare l’oro di un Ingebrigtsen così in controllo della situazione, fresco campione europeo, dominatore alla Diamond League. Ci sono tutti i presupposti per cui il prodigio possa navigare senza troppi scossoni verso il primo titolo mondiale nei 1500 metri per lui e per la dinastia Ingebrigtsen (l’oro mondiale gli era sfuggito anche nella pur breve carriera giovanile). Il piano gara è praticamente opposto rispetto alla semifinale. Ingebrigtsen si mette da subito al comando, con l’intento di imporre alla finale il suo ritmo e le sue regole. La strategia sembra pagare: almeno fino a 250 metri dalla fine. Da qui in poi, la storia si ripete una prima volta. Per Ingebrigtsen sicuramente è una tragedia: per i numerosi detrattori che lo aspettano al varco dopo lo show della semifinale è un sollievo. Subito dopo aver tagliato il traguardo, nel pieno di un’esultanza sfacciata, Josh Kerr, gli occhialoni da corsa specchiati perennemente incollati al naso, rispedisce al mittente il favore ricevuto in semifinale con un gesto lasciato un po’ a mezz’aria: si volta verso l’interno, dove sa che c’è Ingebrigtsen, e cerca lo sguardo sconfitto del favorito.
Le interviste post gara sono una prima copiosa spolverata di concime per l’humus che farà germogliare la rivalità. Josh Kerr mette in mezzo la retorica del lavoro e un riferimento ambiguo al bene che vince sul male:
«Ho sempre creduto in me stesso perché ho lavorato in maniera dura e onesta, e credo che alla fine la persona buona vinca sempre».
Ingebrigtsen scende in un terreno ancora più spinoso e tira fuori il grande tema della sfortuna: nei giorni della gara è attaccato da un fastidioso virus alla gola che ne avrebbe minato lo stato di forma (virus che si dissolve nel momento in cui cominciano i 5000 metri, che vince):
«Complimenti a Kerr, ma mi sento un po’ sfortunato. Ho avuto la bocca un po’ secca, che poi si è trasformata in una specie di mal di gola… Ho fatto tutto il possibile e mi sento un po’ sfortunato».
Questa storia della sfortuna, lasciata maliziosamente a mezz’aria, a Kerr non va giù. A un paio di giorni dalla conquista del suo oro a Budapest, in un'intervista per Citius Mag Kerr spara i suoi primi colpi. Sa dove colpire: attaccare il coupe de theatre dell’esultanza in semifinale alla luce del ribaltone in finale.
«[L’esultanza] deriva da uno stato di insicurezza… qualcosa che anche io ho fatto [celebrare vittorie in semifinali e batterie] nei momenti in cui ero nel mio peggior stato di forma. Insicurezza e frustrazione, consapevolezza di non essere come al solito il centro dell’attenzione… insomma, ci ho visto una debolezza»
La bomba è destinata a scoppiare da un momento all’altro, e non impiega troppo tempo per farlo. Succede quando Jakob si mette il suo oro al collo, quello nei 5000 metri. Medagliato e riparato dal prestigio della vittoria iridata, ripensando all’occasione persa sui 1500 torna sul tema del mal di gola, e poi finisce con le scarpe nella capziosa trappola di un giornalista: «in un rematch, Josh Kerr sarebbe in grado di batterti?». Risatina: «No: è solo quello dopo di me in fila. La vedo così: se non avessi partecipato avrebbe vinto sicuramente». Il tono stoicamente super partes nella risposta di Ingebrigtsen è un assist al bacio per l’appoggio a rete più semplice possibile di Kerr, che arriva all’alba dell’ultima uscita stagionale di Kerr in Diamond League il 31 agosto dello stesso mese: «che mi manchi pure di rispetto, intanto l’oro al collo nei 1500 ce l’ho io».
Josh Kerr's Response to Jakob Ingebrigtsen calling him "just the next guy"
La guerra di logoramento che si trascinerà fino al tartan viola di Parigi è solo all’inizio.
Kerrgebrigtseng
Inverno pre olimpico. Alla voce dei 1500 metri il ranking di fine anno della World Athletics vede Ingebrigtsen al primo posto e Kerr al terzo posto della lista - tra di loro Yared Nuguse, che ritroveremo a Parigi. Il lungo inverno scandinavo del primatista in carica è speso alle prese con un tedioso infortunio al tendine d’achille, che fa scegliere a Ingebrigtsen e al suo team la strada della cautela: niente mondiali indoor a Glasgow. Quando il gatto non c’è, Josh Kerr balla. A febbraio a New York batte il record mondiale indoor delle due miglia, annichilendo in 8.00.67 il precedente tempo di niente meno che sua eminenza sir Mo Farah (8.03.40). A marzo nel mondiale di casa a Glasgow abbandona i 1500 metri e opta per i 3000: la scelta lo ripaga con un oro - davanti a Yared Nuguse.
La replica dalla sponda norvegese del mare del Nord arriva pungente come una folata di neve, in una delle uscite che sono diventate un instant classic dello scontro verbale: «Sono contento che i miei avversari stiano migliorando, vorrà dire che non devo più correre da solo. In quella gara avrei potuto batterlo bendato».
Alla richiesta di una replica al commento pepato di Ingebrigtsen, Kerr ha replicato con un saggio «No comment».
Il lungo anno pre olimpico della coppia che è stata rinominata la Kerrgebrigtsen - nell’anno di Barbenheimer le crasi vanno ancora di moda- si affaccia finalmente all’estate di Parigi 2024. Dopo il lungo inverno delle parole, a fine maggio la rivalità può finalmente tornare in pista sul tartan rosso di Eugene, Oregon, alla Boweman Mile, ribattezzata per la ricchezza del pacchetto atleti “The Mile of the Centrury”. Lo scontro è aperto da una conferenza stampa in cui l’organizzazione riesce a mettere la coppia di fronte a un microfono, nella stessa stanza. Kerr taglia corto sulla richiesta di spiegazioni sull’andamento della loro relazione: «Non mi sembra che ci troviamo a una sessione di terapia matrimoniale». Su di sé, invece, è più prolisso:
«Sono qui in veste di migliore al mondo, e voglio continuare su questa strada».
Kerr mantiene la promessa, e si prende tutto, di nuovo: corsa, record inglese sul miglio in 3.45.34 e un nuovo tassello con il suo nome sopra nella sfida con il rivale. Ingebrigtsen, alla sua prima uscita stagionale chiude subito dietro di lui, in 3.45.60. Ruggine? Se il preambolo della stagione è un 3.45 e spicci dopo un infortunio al tendine d’achille e a ruota di un Kerr nel miglior stato di forma della carriera sono ruggine, in tanti cominciano a pensare che le promesse montate per la resa dei conti sui 1500 metri alle Olimpiadi possano essere mantenute.
È l’ultimo scontro diretto prima di Parigi. A proposito di titoli bold e benzina sul fuoco, Josh Kerr - fresco di elezione a capitano della squadra di atletica britannica - in un’intervista per Citius Mag di metà luglio si definisce «il miglior mezzofondista al mondo sui 1500 metri» . Per ridimensionare le quote del rivale in vista dei Giochi, Ingebrigtsen sa che gli servono due mesi stellari. Trova la sua grande estate: prima a Roma, con un doppio oro europeo nei 5000 e nei 1500 metri, e poi all’Herculis Meeting di Monaco, dove con un 1500 in 3.26.73 diventa il quarto essere umano a correre la distanza sotto la soglia di 3 minuti e 27 secondi.
Parigi 2024
Le sorprese che riserva la soap opera non finiscono, anzi. Il conto alla rovescia che porta al 26 luglio si avvicina e la risposta norvegese alla nomina di Kerr a capitano di Team GB è l’elezione degli Ingebrigtsen ad aedi ufficiali per decantare lo status quo olimpico della nazione scandinava. La mossa di genio della royal family della velocità norvegese è una canzone pop: Ingen gjør det bedre (Nessuno meglio di noi), intonata da un’inedita versione del terzetto Heinrik-Filip-Jakob rinominati The IngerbritZ - in salsa Jackson 5, tra sacro e profano.
Mentre Jakob è intento a rassicurare la sua patria, il mondo dell’atletica è in fermento. Archiviata la sbornia dei 100 metri, è tempo di capitalizzare il peso della rivalità atletica del decennio. Il contorno mediatico ha confezionato per la finale dei 1500 metri un abito di fuoco e fiamme: siamo di fronte a una specie di scontro finale, una resa dei conti che pare più il main event di una pay-per-view WWE che una finale improntata alla sobrietà dei toni e alla celebrazione dei valori olimpici.
Un trailer dell’atto finale ci è stato concesso nel pomeriggio di domenica 4 agosto, quando Josh Kerr e Jakob Ingebrigtsen si sono ritrovati di nuovo insieme dopo l’assaggio di fine maggio. Dopo una gara condotta dall’inizio alla fine, la spunta Ingebrigtsen, che si porta a ruota nel giro di 0.16 decimi sia Kerr che Cole Hocker. C’è giusto il tempo per un ultimo giro ai microfoni, l’ultimo atto verbale del drama: Kerr promette la gara dei 1500 metri più difficile di tutti i tempi; Ingebrigtsen rivendica il prestigio di possedere un’indole ipercompetitiva come la sua - che evidentemente non tutti i colleghi condividono con lui (chi vuole intendere, intenda).
Con l’aria dello Stade de France carica dell’elettricità di una grande notte olimpica, allo start della finale dei 1500 metri comincia un’apnea lunga tre minuti e mezzo. Ingebrigtsen non varia il copione dell’ultima finale mondiale e della semifinale. Vuole fare il passo, vuole avere in mano le redini del gioco. Per ampi tratti di gara, l’unico legame tra lui e il gruppo è la coppia di keniani Cheruiyot-Komen, con il secondo che sembra tirare 1000 metri al primo, fino al crollo finale di entrambi - nel corso dell’ultimo giro Timothy Cheruiyot scivola lentamente fino alla penultima posizione, davanti al connazionale. Per gli avversari di Ingebrigtsen il prezioso lavoro dei keniani è decisivo. Il contatto mantenuto dai due abilita la volata finale sugli ultimi 400 metri. Il ritmo di Ingebrigtsen si alza: la compattezza del field si disgrega, mentre un piccolo gruppo atomizzato di inseguitori è alle calcagna del campione in carica. Il più vicino a Ingebrigtsen è Josh Kerr, che a 300 metri dal traguardo comincia la sua lunga azione di forza. Il deja vu di Budapest 2023 si sta realizzando.
Una serie di fattori creano una discrepanza tra i due finali: primo, Ingebrigtsen impone un passo più autorevole. Sa che Kerr nel suo stato di forma brillante avrà le forze per attaccarlo, e la curva è il momento peggiore in cui farlo rientrare. Secondo, Kerr per parte sua da una parte confida in una maggior forza sul rush finale, e (terzo) con la coda dell’occhio vede la risalita di un oggetto misterioso sul lato interno della pista. Il terzo incomodo è Cole Hocker, che nonostante un volto contorto dalla fatica sta mangiando terreno con un passo da sprinter. Terrà? Non terrà? Con un po’ di fortuna, se Jakob si impegnerà a fare a sportellate con la minaccia che sta sopravvenendo, Kerr potrà sfruttare l’esitazione per filare via relativamente indisturbato negli ultimi 70 metri. Le cose sembrano andare esattamente così.
Ingebrigtsen, si stringe all’interno per tagliare la strada a Hocker con le cattive: l’americano è quasi costretto ad inchiodare. È un esitazione impercettibile che Kerr usa per lanciarsi nella volata finale, all’esterno del rivale. Le sue gambe girano con cadenza doppia rispetto a quelle di Ingebrigtsen, che con un ultimo disperato passo verso destra prova a tenere la scia. Non basta: ha speso troppo, è risucchiato dai gorghi dell’avanzata forsennata di Kerr da una parte e da quella di Cole Hocker dall’altra.
Lo script preparato per due anni cambia improvvisamente le identità dei protagonisti in gara. Mentre Ingebrigtsen perde addirittura il podio ai danni di Yared Nuguse - la più pericolosa tra le mine vaganti in campo alla vigilia - Josh Kerr si trova a fare i conti con il ritmo folle di Cole Hocker, atleta formidabile nel riservare il suo meglio per i finali. L’americano corre gli ultimi 300 metri in 39.6 e gli ultimi 100 metri in 13.0 - contro i 40.1 e 13.2 di Kerr e (soprattutto) contro i 40.9 e 13.8 di Ingebrigtsen. La matematica fa 3.27.65: nuovo record olimpico e per Hocker un personale migliorato di più di tre secondi (!!!). Alle sue spalle Kerr e Nuguse fanno rispettivamente 3.27.79 (Record Nazionale) e 3.27.80 (personal best). Ingebrigtsen è quarto in 3.28.24. I primi quattro atleti hanno battuto il precedente record olimpico; oltre a Josh Kerr, anche Niel Laros (Olanda) e Pietro Arese hanno battuto i record nazionali: è la finale dei 1500 metri più veloce di sempre. È la gara che tutti speravano di avere, una gara per cuori forti.
C’è chi nella vittoria di Cole Hocker dopo una gara che, almeno dalla prospettiva di Ingebrigtsen e Kerr, è per lunghi tratti una fotocopia della gara di Budapest dell’anno prima vede una sorta di ironia. L’enorme bomba che doveva essere lo scontro finale tra i due dominatori della scena pubblica dell’atletica leggera alla fine è stato più un palloncino carico d’aria, scoppiato da un ago affilato. Cole Hocker ha fatto saltare il banco nella maniera meno aggressiva e più anticlimatica possibile: conducendo la sua gara di soppiatto, dall’inizio alla fine, senza snaturarsi in favore della strategia e degli avversari. La chiosa del neo-campione olimpico è una specie di morale della favola:
Era giusto che i titoli fossero per loro. Loro sono il campione del mondo e il campione olimpico. È stata una cosa buona che il mio percorso sia stato in sordina. Tutti nel field sanno chi io e Yared [Nuguse] siamo. Non avere tutto quel rumore attorno è stato un vantaggio.
Davanti all’impellenza di doverci polarizzare attorno a Kerr o Ingebrigtsen, Cole Hocker ci ha tolto da un bell’impiccio, e tutto sommato ci ha regalato il finale più giusto per una gara dei 1500 metri destinata a restare nella storia dell’atletica.
L’episodio precedente
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