Siamo runner intelligenti? Parte 1
Questa è la prima parte di un doppio episodio dedicato a una domanda esistenziale sul mio essere un corridore
Buona domenica a tutte e tutti!
Cominciamo con i soliti convenevoli: come promesso, finalmente è uscita l’ultima puntata di Storie di Corsa, il mio podcast. Mi facevano notare che - senza neanche farlo apposta - la lunghezza delle puntate (circa 25/30 minuti per episodio) rende Storie di Corsa adatto all’ascolto durante una sessione di running.
Prendi due episodi che ti ispirano, li metti insieme, e ti esce il sottofondo per una corsetta di un’ora. Da provare.
Ma anche basta con la marchettata: qui sotto trovate la puntata dedicata alla seconda vita da runner di Joe Strummer (a cui ho dedicato anche una puntata di ACPQC?). Ascoltatela, e se vi va parliamone!
Volevo cominciare questa puntata prendendola alla larga e rispondendo alla domanda: che cos’è l’intelligenza?
Chiudete Substack, la vostra casella di posta elettronica, date fuoco al vostro dispositivo. No, non risponderò a questa domanda: in 10.000 anni di Storia del pensiero c’è chi si è premurato di elaborare meglio di quanto mai potrei fare io la risposta a questo importante quesito.
Restringiamo il campo, ma vi avverto: anche restringendo il campo non è possibile non prenderla alla larga, almeno un po’. Abbiate pazienza.
Un prurito fastidioso
Ultimamente, oltre alla lettura - abitudine che ho ripreso con mia grande gioia -, occupo il tempo che non passo lavorando, allenandomi, o scrivendo a guardare sport. Cosa guardo? Un po’ di tutto - che è la risposta che ha tirato sempre fuori il peggio di me tutte le volte che mi veniva propinata nel momento in cui chiedevo «Cosa ascolti?». Girata d’occhi; sguardo da vero nerd: «Un po’ di tutto» grida band dozzinali starter pack - e io solo per fare queste considerazioni sono proprio una testa di cazzo, lo so.
Vabbè, fatto sta che io in questo periodo ho effettivamente guardato un po’ di tutto: tanto calcio, tanto basket, ciclismo, Formula 1, tennis; contro qualsiasi mia personale inclinazione, pure la boxe. Lo ammetto chiaramente e senza vergogna: non ho i mezzi né le competenze per comprendere approfonditamente tutto quello che ho visto. Eppure mi sono divertito, in quasi tutti i casi - anche con la boxe, pur restando il fatto che guardare le persone che si menano non è qualcosa che mi fa impazzire (non me ne vogliano gli appassionati).
Il bello dello sport giocato (praticato) bene è che riesce a intrattenere tutti, indipendentemente dal livello di expertise dello spettatore. Il video analista trarrà dalla minuziosa scomposizione di tutti i movimenti di attacco e difesa di una squadra di calcio ben orchestrata un piacere eguale a quello che proverà un appassionato che vede giocare bene la propria squadra del cuore. Non c’è un piacere di serie A o di serie B nel guardare lo sport.
Ho ammirato l’elaborata fase difensiva del Bologna di Thiago Motta; ho guardato i quaranta modi con cui Nikola Jokic si è adattato alla difesa di un massiccio guardiano del ferro come Rudy Gobert; ho osservato qualcosa di a me completamente estraneo, come i complicati incastri dei ciclisti della stessa squadra che lanciano in volata Jonathan Milan negli ultimi cinquecento metri di una tappa del giro d’Italia, coordinandosi con una precisione regolare come il ritorno sempre identico delle arcate del portico di San Luca. Nelle giocate dei singoli e in quelle di squadra ho visto la stessa cosa: intelligenza, ora individuale ora diffusa, distribuita entro la mente collettiva della squadra.
È il concetto di intelligenza che mi preme analizzare per riportarlo allo sport che amo praticare, la corsa su lunga distanza. Definiamo meglio: lunga distanza per me è quella in cui scomodiamo in qualche modo il metabolismo lipidico, o per parlare come mangio, dai 5000 metri in su.
Interpretare la corsa
Gli sforzi che facciamo per dimostrare o smentire che altri esseri siano degni di essere definiti intelligenti potrebbero essere assurdi se non fossero così tragici. Le testimonianze sperimentali forniscono un resoconto fulgido e impeccabile, non della presenza o assenza di intelligenza negli altri, ma di una mancanza di consapevolezza da parte nostra (James Brible, Modi di Essere)
Svicoliamo rapidamente dagli sport di squadra. Spesso (quasi sempre) sottostanno a situazioni in cui l’intelligenza è da un lato il carattere individuale del fenomeno benedetto dalla genetica e dal talento - fuor di giudizio morale, esistenza sregolata e scarsa capacità di gestire la propria immagine pubblica non tolgono ai campioni sul campo la loro particolare intelligenza sport specifica oltre la media - ma dall’altro è anche la capacità di sfruttare nella maniera più furba possibile le zone grigie dei regolamenti per trarre dalle situazioni il massimo vantaggio (dando il via a vere e proprie rivoluzioni tattiche). O, ancora, di sfruttare la complessità dei regolamenti, delle costrizioni temporali, dei sistemi di punteggio, dei fattori esogeni. È una dinamica teatrale: si interpreta un ruolo in campo, una partita, una situazione; alle volte, anche un’intera carriera.
Nella corsa non c’è niente da interpretare. È uno sport semplice. C’è un punto di partenza, c’è un punto di arrivo, c’è una strada che li collega. Al massimo, c’è un tempo limite. Stop. Le regole delle gare sono semplici: se ti iscrivi a non puoi tagliare il percorso, né farti portare in auto da un punto all’altro del percorso. E quindi che ci vuole? Che tipo di intelligenza può servire per allacciarsi le scarpe e mettere un piede davanti all’altro? Non è che si gioca alla corsa, si corre.
È davvero così semplice? Possiamo davvero liquidare il nostro sport incasellandolo al livello più basso nella scala del Quoziente Intellettivo richiesto? Secondo me la questione è più complessa di così.
E allora dobbiamo addentrarci entro alcune domande difficili. Cosa fa di un runner un runner intelligente, relativamente alla corsa e al resto dei runner? Posso considerarmi un runner intelligente? Quali caratteristiche fanno (o farebbero) di me un runner più intelligente?
Ritorno al pleistocene: la corsa come forma di intelligenza storica
Da vittime di un problema strutturale nel guardare all’Intelligenza, è difficile venire a capo di tali quesiti. Per noi l’Intelligenza è una specie di monolite, filtrabile solo attraversi caratteristiche umane. Fuori dalla nostra esperienza fatichiamo a rivoluzionare il paradigma secondo cui altre forme di vita non sono più o meno intelligenti di noi, ma sono intelligenti diversamente da noi. Questa chiusura mentale è il nostro peccato originale.
Eppure, la storia stessa della corsa umana è una storia di intelligenza, che come tante storie di intelligenza nasce da un modo di pensare controintuitivo, e apparentemente un po’ stupido. Di questa storia ne parla un biologo molto importante, Bernd Heinrich, che da buon ultramaratoneta si interessa al tema dell’evoluzione dell’umanoide in essere umano corridore in un bel libero dal titolo inequivocabile: Correre. Non si può sbagliare, insomma.
Come spesso accade nella storia dei primi ominidi - quelli di tre milioni di anni fa - tutto nasce dalla necessità di trovare cibo. In una parola: caccia. Non potevamo contare sulla velocità dei ghepardi, sulla vista degli uccelli, o sulle mastodontiche masse dei rinoceronti, degli ippopotami o dei mammut. Per la verità, eravamo lenti, goffi e piuttosto vulnerabili. Ma avevamo un paio di cartucce da sparare; o meglio, un paio di rami di legno appuntiti da lanciare con le nostre mani nuove di zecca. Fu così che da quadrupedi diventammo bipedi: da stronzi come siamo penso proprio che i più quadrupedi tra gli ominidi dovessero per forza prendere per il culo i primi australopitechi bipedi ed eretti. Mi immagino una dinamica familiare del tipo scimmione brontolone alla zio Vania del Più grande uomo scimmia del pleistocene, di Roy Lewis, che va dal parvenu eretto e svettante e gli farfuglia quelle frasi del tipo «com’è l’aria lassù?» (gli amici alti capiranno), pensando di ferirlo nell’orgoglio per quella caratteristica strana.
Ma le risate durano poco. Perché gli ominidi bipedi, alti ed eretti, sono cacciatori molto migliori dei quadrupedi bassi e curvi: e i migliori cacciatori diventano gli alfa della situazione, con tutto quello che ne consegue - rispetto, potere, disponibilità sessuale. Non è solo una questione di mani. Da bipedi guadagniamo un vantaggio strutturale importantissimo sulle prede che inseguiamo: il nostro campo visivo si allarga, e soprattutto diventiamo esponenzialmente più resistenti. Restiamo lenti, restiamo deboli, ma sviluppiamo una resistenza incredibile, che non sarebbe stata possibile se non ci fossimo eretti su due gambe.
Stare su due gambe diminuisce la porzione di corpo esposta al sole e permette a una porzione molto più ampia del nostro fisico di raffreddarsi durante la corsa, essendo maggiormente esposti ai venti - sì, lo stesso vento che malediciamo ogni volta che usciamo per una corsa in primavera. Oltre a questi due meccanismi di raffreddamento passivo, con il tempo abbiamo sviluppato anche un altro sistema interno e sofisticato, che si attiva intelligentemente in determinate condizioni di sforzo: la sudorazione.
Una combinazione letale per tutti i poveri erbivori colti dalla stanchezza dopo caparbi ed estenuanti inseguimenti, o per i predatori che, rintanati al fresco delle loro tane durante le ore roventi della savana africana, non potevano competere con il nuovo sceriffo in città.
Immaginazione come ingrediente segreto
Le ragioni storiche dicono che la corsa è una questione di adattabilità, e l’adattabilità è la forma più sottovalutata di intelligenza.
Torniamo ai nostri tempi, torniamo al nostro quesito: cosa fa di un runner un runner intelligente? Ho sondato diversi tipi di strade per rispondere. Si tratta della consapevolezza di sé in movimento nello spazio? O forse, si tratta della capacità di modulare le energie nell’arco di una gara? Sono risposte valide, ma almeno per me, non esauriscono il problema. Quest’ultima frase è molto importante: almeno per me. La risposta che sto per dare alla domanda è puramente personale.
Per me, alla domanda dell’intelligenza relativamente alla corsa si risponde con uno spunto del solito Bernd Heinrich:
La nostra resistenza allo sforzo non è solo una questione di ghiandole sudoripare - come saprà bene qualsiasi corridore di lunga distanza. È la visione, la capacità di proiettarsi nel futuro. Resistere significa avere un obiettivo chiaro e riuscire a immaginarlo - è la capacità di concepire nella mente ciò che non è immediatamente visibile agli occhi. L’immaginazione è la facoltà che ci permette di vedere il futuro, che si tratti di uccidere un’antilope o di battere un record1
È bello pensare che alla base dell’intelligenza in uno sport meccanico, ripetitivo, noioso come la corsa ci sia l’immaginazione. Immaginazione non come fine della gara, ma come interlocutrice privilegiata tra la nostra testa e la fatica del nostro corpo.
Questo ci rende runner intelligenti: saper gestire i momenti attraverso l’immaginazione e la visione del futuro, essere più bravi degli altri a modulare la fatica attraverso la razionalizzazione di quello che sta per succedere e tradurre tutto questo in input per il corpo, a seconda delle nostre possibilità fisiche e atletiche. Non è nulla di astratto: è una capacità che si allena in ore e ore e ore e ore in strada.
Ma visto che la mia idea personale, presa da sola, vale poco ho deciso di estendere questa domanda a una serie di runner e appassionati di corsa. Negli scorsi mesi ho raccolto le loro risposte e visioni della corsa e nella seconda parte di questa puntata, che uscirà domenica prossima, riporterò le risposte che ho raccolto.
Intanto, se vi va di dirmi la vostra, lasciate un commento sotto al post o rispondete alla mail: parliamone! Mi piacerebbe raccogliere più voci e più opinioni per creare un dibattito attorno a questo tema.
Ps. Chiedo scusa sin da ora se avessi sbagliato qualche termine scientifico nella definizione degli ominidi, australopitechi, homo erectus. Sarò grato a chiunque vorrà correggermi nei commenti.
Letture e fonti
Partiamo da Correre. Una storia naturale, di Bernd Heinrich. Una storia di adattamenti, di specie animali incredibili e di rivoluzioni biologiche impensabili.
Roy Lewis, Il più grande uomo scimmia del pleistocene. Uno dei libri più divertenti che abbia mai letto. Una delle migliori satire che abbia mai letto.
Modi di Essere di James Bridle. Una bella e approfondita indagine sull’idea stessa di intelligenza, nel regno animale, vegetale e umano.
🏃🏻♂️ Ti è piaciuta A cosa penso quando corro? Come puoi sostenere il progetto
Se non lo hai ancora fatto, iscriviti alla Newsletter: ogni iscrizione è importante, mi motiva a credere in questo progetto.
Condividi A cosa penso quando corro? con amici, parenti, contatti, su Instagram, Twitter, Facebook, in un balletto su TikTok. Vedi tu!
Il Podcast Storie di Corsa: lo ascolti qui
Il mio profilo Instagram: @ban.zo_
Il profilo Instagram della newsletter: @acosapensoquandocorro
Il mio profilo Strava: Lorenzo Bandini
Se questa puntata ti è piaciuta e ti va di sostenere questo progetto, sostieni A cosa penso quando corro? letteralmente al prezzo di un caffè al bar.
Correre. Una storia naturale, p. 177.