Nessun uomo nato con un'anima...
...può lavorare per la repressione. L'importanza del Primo Maggio attraverso il musiracconto della Maratona di Londra 1983 di Joe Strummer 🇬🇧
Il Primo Maggio è quel tipo di festa in cui se trovo chiuso il bar sotto casa nonostante quella voglia tutta tipicamente domenicale di fare colazione al bar, non riesco a prendermela nonostante il fatto che “è festa, certe attività devono restare aperte eccheccazzo”. Lo stesso vale per il supermercato - per non parlare dell’orrenda moda di tenere aperti in questa giornata i centri commerciali, i negozi di bricolage, i capannoni sulle strade statali che vendono elettrodomestici e le catene fast fashion; no, non voglio nessuna consegna prime il Primo Maggio, lasciate stare i lavoratori e le lavoratrici.
Questo è il punto dove dovrei inserire una frase retorica su quanto è importante la Festa del Lavoro nel 2024. È difficile non banalizzare. Storciamo giustamente il naso verso chi dileggia l’antifascismo, e ci mancherebbe altro; siamo più tiepidi nel rimproverare chi sbeffeggia il diritto fondamentale su cui la stessa costituzione antifascista si fonda.
Ora veniamo agli elefanti nella stanza.
a) Parlare dei problemi legati al lavoro in maniera esaustiva nel 2024.
b) Proporre soluzioni a questi problemi.
c) Vogliamo proprio vedere come te la cavi a collegare questa roba con la corsa, sì sì.
Liquiderò in fretta i punti a) e b): se cercate qui panoramica e soluzioni sui problemi del mondo del lavoro direi che siete nel posto sbagliato. Io vi chiedo scusa, ma credo che per le aspettative e per le premesse con cui aprite e leggete questa newsletter a voi, care lettrici e cari lettori, vada bene così. Credo sia meglio così anche per rispetto verso chi tratta questi temi con serietà.
Risposte semplici non le hanno i sindacalisti, gli economisti o i sociologi: figuratevi io. Posso almeno contribuire facendo rumore attorno ad alcune tematiche che mi stanno a cuore? Ma certo! I tirocini a gratis (su LinkedIn - se non lì, dove? - ho sentito dire che gli stagisti non dovrebbero festeggiare perché di fatto non sono pagati per lavorare: in effetti la giornata del volontariato è il 5 dicembre), i massivi layoff delle big tech capitanate dalle squallide figure che attraversano i CDA e le assemblee degli investitori tutte a pacche sulle spalle e sorrisoni, mentre a pranzo al Dorsia di turno si prendono le decisioni lacrime-sangue (degli altri, si intende: com’è misera la vita negli abusi di potere); le frottole di una politica scollata dalla realtà del mondo del lavoro, lo sfruttamento di chi vuole farcela con onestà, il completo appassire della coscienza di classe: quella che ci dovrebbe far alzare il sederino per difendere noi stessi e chiunque dai soprusi del padrone.
«Okay, bene: ora collega tutta questa roba con la corsa»
Punk!
Per fare un passaggio tra questa rabbia che proviamo e la corsa, serve un catalizzatore, e quale catalizzatore può unire le cose meglio della musica?
C’è un musicista, che è ormai scomparso da più di vent’anni (era il 2002: io ero piccolo, ma non così piccolo da non ricordarmi dell’arbitro Moreno) che con la sua band è stato portavoce di un messaggio di speranza per una generazione di giovani delusi, disillusi, disperati, disoccupati, disgraziati in un panorama umano desolato come quello dell’Inghilterra degli anni Settanta e Ottanta.
Lui è Joe Strummer, la band sono i Clash: per chi di voi non li conoscesse, vi basta sapere che qualcuno li ha definiti «l’unica band che conti qualcosa». E comunque ne parleremo brevemente.
Beh, Joe Strummer era un runner: ha corso tre maratone.
Ci arriviamo tra un attimo.
Il frastuono più atroce
Se dico punk pensiamo tutti, ne sono quasi certo, alla caricatura del punk. Le creste, le spille, i chiodi neri, problemi con la legge, gente che sputa; alcol e droghe, antidepressivi, pilloline; poi, forse, (e rigorosamente per ultima) arriva la musica: oddio, musica, rumori. Quella roba lì. Un nome solo? I Sex Pistols.
L’Inghilterra degli anni ‘70 era un gran casino: povera, disoccupata, incazzata.
C’è chi ha capitalizzato questa incazzatura attraverso inni e preghiere al nichilismo - i Sex Pistols, appunto: il mondo fa schifo? Urliamolo: «No future».
Joe Strummer e i Clash sono stati altro. Musica innanzitutto: il termine più inflazionato quando si parla di Clash è contaminazione. Reggae, jazz, dance, rockabilly, blues, ska. Anche l’hip-hop.
E poi, ovviamente, c’è di più. Forse il più bel pezzo sui Clash è di Lester Bangs, una delle penne più divertenti che abbia mai scritto di musica - sicuramente di musica rock.
È troppo facile mettersi un collare da cane e un chiodo nero e iniziare a vomitare qua e là che vuoi sniffare la colla e pugnalare qualcuno alla schiena.
Il punk ha ripetuto proprio gli atteggiamenti che aveva scimmiottato (la NOIA e l’INDIFFERENZA) e stavamo tutti aspettando l’arrivo di un gruppo che almeno fingesse che gliene FREGASSE QUALCOSA.
Ergo, i Clash.1
Questo rappresentavano i Clash. Dove i Sex Pistols vedevano disperazione e basta, Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Topper Headon vedevano disperazione e speranza:
Molto di quello che viene spacciato per punk consiste nel dire io faccio schifo, tu fai schifo, il mondo fa schifo e chi se ne frega, il che in un certo senso, ehm, uh, non basta.2
È per questo che la politica entra nella musica dei Clash.
Le canzoni dei Clash non avevano un tono didascalico: non erano lezioni di politica, in alcuni casi erano inni da cantare a squarciagola proprio come fossero pezzi dei Sex Pistols; non risolvevano nessun problema. Non è che puoi «chiedere il senso della vita a una rock band del cavolo». Ma un album può cambiarti la vita - o perlomeno la tua visione della vita: per cui è importante che il rapporto emozionale con le questioni sociali resti sempre vivo (a proposito, qui mentre parlano del titolo del loro terzo album, Sandinista!). Joe Strummer lo sapeva bene:
Politicamente quel periodo non era il massimo. C’era la Thatcher in Gran Bretagna, Reagan negli Stati Uniti. Noi eravamo parte della sinistra. Ma, detto questo, noi non avevamo alcuna soluzione per i problemi del mondo. Noi cercavamo di andare a tentoni, in maniera socialista, verso un futuro in cui il mondo potesse somigliare a un posto un po’ meno miserabile di quello che è. Non ce l’ha fatta Karl Marx, quindi come potevano farcela quattro chitarristi di Londra? Brancolavamo nel buio.3
London Calling: 1983
E quindi, trovato l’anello di congiunzione, arriviamo allo sport; arriviamo a quando Joe Strummer corse la terza delle tre maratone della sua vita: Londra 1983. A differenza di quanto non sia accaduto per i due casi precedenti, abbiamo la fortuna di avere un numero elevatissimo di testimonianze fotografiche di questo evento grazie al lavoro di Steve Rapport, fotoreporter inviato da Rolling Stone a seguire la corsa di Joe Strummer.
Fermi tutti. Domanda.
Perché Joe Strummer, al di là del suo status di leader carismatico di una punk rock band di fama mondiale, corre maratone? Non esiste una risposta, o meglio, ci sono delle congetture: la più accreditata è che semplicemente, a Joe piace correre, gli piace dai tempi della scuola. E quindi perché no? Beh, dopotutto è una bella sfida allo status quo della macchietta punk too drunk to fuck alla Jello Biafra (o Johnny Rotten).
Ci atterremo a questa spiegazione. Torniamo a Londra.
Tutto parte dal parco di Blackheath Common, Greenwich: sud di Londra. Qui, comincia la Maratona e i runner si ammassano sulla linea di partenza per iniziare la loro avventura. Le foto di Rapport ritraggono Strummer lì dove gli piaceva stare, in mezzo alla gente. Certo, non passa inosservato: di tutte le persone che lo circondano sulla linea di partenza è l’unico con una cresta alla moicana - quella del periodo 1982-83 che sfoggia nel video di Rock the Casbah.
Indossa una canotta - una t-shirt a cui ha reciso le maniche: sopra ci sono i police and thieves - un paio di pantaloncini Adidas - da buon amante del reggae strisce rossa-gialla-verde - e ai piedi un paio di Adidas Joggen bianche e arancio - la casa di produzione tedesca gli dedicherà un paio di scarpe signature.
As per l’unica fonte dell’epoca - l’uscita del 28 aprile 1983 del giornaletto Smash Hits - Joe Strummer correva la Maratona insieme a un gruppo di runner assoldati dal Sun per raccogliere fondi per la ricerca contro la leucemia: forse i tabloid erano a conoscenza della sua passione per il running prima che la cosa fosse mainstream, per via di un clamoroso caso di cronaca risalente al 1982... di cui qui non parleremo (in fondo capirete perché).
Recita il trafiletto di Smash Hits:
È l’unico iscritto non studente di medicina, o che urla ciao mamma! con la sua fascetta di lana in testa4
Forse sono studenti di medicina i ragazzi che lo circondano alla partenza? Non lo sappiamo; sicuramente tanti di loro hanno la fascetta di lana in testa; e a differenza di quanto accada oggi, non ci sono supershoes in vista. Joe Strummer è in mezzo a questi runner, con la mano sinistra appoggiata sulla spalla di un ragazzo e la destra alzata in segno di saluto verso un paio di giovani spettinati-infascettati, di cui non possiamo vedere (ma ne immaginiamo) l’espressione.
Comunque, la maggior parte delle persone lì attorno ha proprio l’aria di chi si fa i cavoli propri; chi sarebbe questo tizio con taglio alla moicana che fa casino? Chissene frega di Combat Rock, della Billboard, dell’«unica band che conta» e delle dannate Guns of Brixton. Qui c’è da correre una maratona: piove, fa pure un freddo cane e le energie per mettersi pure a fare i cretini non ci sono.
Joe Strummer ha il suo pettorale D918, con sponsor Gillette; combinazione duotone molto english rossa su campo bianco - a differenza dei pettorali di oggi che sono un Sgt. Pepper ‘s Lonely Hearts Club Band di sponsor colorati (main sponsor-technical sponsor-media partner: la sostenibilità economica di una maratona è un tema complesso).
Oggi le celebrities corrono con i loro pettorali personalizzati, ci sono sovraimpressioni sulle immagini televisive che mostrano i nomi dei prodi VIP che scendono nell’agone pubblico delle maratone, quegli eventi sportivi (ritualità collettive) in cui l’ultimo degli amatori parte dalla stessa riga da cui parte il primo tra gli atleti professionisti. L’orologio è lo stesso per tutti; così come la pioggia - e il 17 aprile 1983 a Londra di pioggia ne cade tantissima.
In questo senso, sì: la maratona è davvero un evento punk un po’ sovversivo, dove cadono tutte le barriere tra le élite e le persone comuni; dove non conta chi sei, da dove vieni, perché corri, o quanto è commovente la tua storia: la distanza è la stessa per tutti, il tempo massimo pure, e il servizio scopa prende su l’ultimo dei barboni e il più alto dei re.
Una cosa va detta: ammettendo che una maratona sia un evento punk (cosa che mi fa sorridere, perché dopo che i runner hanno messo la corsa sopra tutto come il prezzemolo ci mancava solo che ci definissimo punk), a giudicare dalle persone ritratte con Strummer quel giorno è proprio una White Riot.
È così umido che il povero Steve Rapport si preoccupa per la sua strumentazione. E in più fa freddissimo: alcuni partecipanti sono imbustati nei sacchi del pattume neri che anche oggi si vedono sulle linee di partenza. Joe è impaziente: sorride con tutti, scatta qualche foto, fa qualche passetto sul posto per scaldarsi. Poi la gara parte.
Steve Rapport gira per Londra in auto e lo segue.
Mentre corre, Strummer interagisce con il pubblico, sbraccia, fa smorfie: alcune sono smorfie innocue, altre sono facce di dolore. C’è uno scatto in particolare in cui si vede tutta la fatica del podista stanco. Le anche sono basse, la schiena è leggermente curva, i piedi sembrano incollati a terra mentre la testa è impercettibilmente buttata all’indietro; occhi socchiusi, come a richiamare le energie residue.
Che abbia trovato il muro?
Anche questo non lo sappiamo. Sappiamo che Joe Strummer ha concluso la gara in circa quattro ore e dieci minuti.
Le sue dichiarazioni post gara sono: «la più grande tentazione quando corri una Maratona a Londra è infilarti in un pub a farti una birra lungo il percorso».
What are we going to do now?
Ora, il gesto punk e sovversivo della corsa è stato evidentemente un modo per avere la possibilità di parlare di altro - i temi sollevati a inizio puntata - attraverso il filtro di qualcuno che nella potenza del suo messaggio ci credeva davvero - e per questo lo abbiamo preso così tanto sul serio.
Forse, in fondo, aveva ragione Lester Bangs: andarsene in giro a dire che tutto fa schifo non basta più. Farlo sui social, magari dando del «boomer» a chi scrive provocazioni orrende, è anche peggio: è proprio bandiera bianca.
Forse sarebbe il caso di ricominciare a vivere il dissenso in maniera più articolata, più consapevole; sarebbe il caso di riappropriarci di una coscienza collettiva, di incanalarla in maniera un pochino più artistica - ma non per questo meno rabbiosa - di quanto non facciamo urlando «i padroni se ne vadano tutti a fare in culo».
Altrimenti il punk - inteso non tanto come musica, ma in senso più lato come «confluenza al di fuori di uno spazio legittim(at)o»5 (quindi anche la corsa e la fatica fisica, dove da ogni parte ci viene detto che patire o faticare è deplorevole) - non solo non sarà efficace, ma sarà anche il nostro contentino. Cani che abbaiano ma non mordono.
Vorrei chiudere con le parole di Joe Strummer:
Devi pensare a te stesso in quella situazione: cosa faresti se governassi il mondo? È una domanda difficile e non credo che avessimo una risposta. Non che avremmo dovuto averne una. Nondimeno, abbiamo provato a concentrarci e a porci questo tipo di domande. Che sia stato qualcosa di buono o utile, noi ci abbiamo provato.6
La storia completa della vita da podista di Joe Strummer sarà al centro del nuovo episodio di Storie di Corsa, il Podcast di A Cosa penso quando corro?, che uscirà la prossima settimana.
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Qui il primo episodio:
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Lester Bangs, Guida ragionevole al frastuono più atroce, Minimum Fax, p. 338.
Ibid.
Tratto da questa intervista. (1.35)
«Smash Hits», 28 aprile 1983, pag. 5.
Mark Fisher, Scegli le tue armi, Minimum Fax, p. 25.
Tratto da questa intervista. (2.22)