Buona prima domenica di estate!
Prima di partire con la puntata di oggi - vi avverto, sarà leggermente malinconica, al limite del patetico, ma questo è lo stato d’animo e qui siamo sulla tv verità dove non ci prendiamo in giro sui sentimenti, perché siamo tutti adulti - c’è un importante sondaggio che vi devo sottoporre.
Stavo pensando: A cosa penso quando corro? è un nome nato un po’ per caso in quei dieci minuti di agosto 2022 in cui ho deciso “scriverò una newsletter”. Oggi mi chiedo: è un nome che ha veramente senso? Io ci sono affezionato, ma sono anche un po’ titubante, perché:
È un nome lungo;
È un nome molto generico, perfino per una newsletter in cui si parla di running;
Perché è un cliché banale che le idee buone vengano fuori mentre si corre: e forse è pure poco vero.
Come al solito, c’è Storie di Corsa, il mio podcast: mentre ho cominciato a lavorare sulla prossima puntata, vi linko l’ultimo episodio. Che per la verità ha un finale decisamente tragico, pure questo.
Il cielo grigio.
O beige, o crema: per me, metallico. L’aria è nebbiosa di umidità: ma l’umidità non è acquatica, o meglio - e più estivamente - equorea (con retrogusto salino, marino); piuttosto, è sabbiosa. È proprio sabbia del Sahara, che sale in cielo dal deserto a latitudini lontane, sospesa su venti caldi da meridione, e viaggia, viaggia, viaggia per incorniciare della sua aura marroncina la pianura padana bionda di grano, o le equivoche punte delle montagne.
Su questo Arrakis non vado a correre: ma ci va un signore che incrocio sulla strada di campagna che percorro, in auto, mentre vado in piscina. Ha la testa fasciata in una sorta di kefiah, ricavata dalla maglietta che lo lascia a torso nudo.
Lisan al gaib!, gli vorrei gridare!
Lo passo, mentre comincio a fingere che la mia auto, tutta incrostata di gocce di sabbia cadute dal cielo terroso sia un verme del deserto. I pulviscoli schermano e filtrano la luce dei raggi solari. Il sole è tondo, definito, sembra un pianeta vicino. Lo guardo come se avessi davanti alla faccia un paio di occhiali da saldatore, di quelli che mi davano i vicini quando ero piccolo e - non si sa bene per quale legge dell’universo - una volta all’anno c’era un’eclissi solare da guardare.
A certain hue of brown
C’è qualcosa di strano, di romanticamente sinistro in questo cielo. Robert Louis Stevenson in A Chapter on Dreams parla di questo bambino perseguitato da nulla di più indefinito di una particolare tonalità di marrone, «che non lo turbava mentre era sveglio, ma che lo spaventava e perseguitava mentre dormiva»1.
Per me correre è difficilissimo in questo periodo. Vorrei dire che è il colore del cielo che mi atterrisce, o che è il caldo a demotivarmi: mi piacerebbe continuare come nulla fosse con il self talk, tra me e me, con cui l’io più razionale prova a convincere la controparte zuccona che «è solo il fisiologico prosciugamento energetico che vivo all’inizio dell’estate, che basta poco e tornerò a carburare. Sì, basta fare mente locale, modificare il ritmo circadiano e spostare alle prime ore del mattino il picco energetico che mi consentirà di allenarmi nel piacevole freschetto precario delle cinque antelucane».
Continuo a percepire qualcosa di doloroso nel mio tallone destro, da ormai troppo tempo. È niente di che: nulla in confronto ai dolori lancinanti che provavo a inizio anno ogni volta che tornassi da una corsa di soli cinque chilometri. Ma è lì, puntuale, ogni mattina. La mia sveglia personale. Non ho bisogno di schiaffetti sul volto, o di pizzicotti sul braccio per capire che sono sveglio e che non è un sogno: basta mettere giù il piede destro, sul pavimento e mentre la caviglia destra si dorsiflette la rete nervosa manda un clic al cervello. Clic: soffro quindi esisto.
Eppure, mi dico, sono stato bravo: non ho forzato, non ho esagerato, ho ascoltato il mio corpo, ho continuato con metodo a rafforzare i muscoli. Quando ho corso, l’ho fatto con criterio, senza mai alzare troppo repentinamente il conto dei chilometri. Non è bastato.
Non so che lezione ci sia da imparare da tutto questo: che si sopravvive anche senza correre? Che le attività da fare non mancano? Che si può sempre stare più attenti? Che i problemi nella vita sono sempre altri? Che si può amare uno sport senza praticarlo?
Boh, credo sia un’insalata mista di questi sentimenti tra il delusional e la saggezza. Alla fine, ho sempre detto la stessa cosa: corro con la promessa di smettere nel momento in cui dalla corsa non ci sia più nessuno stimolo da trarre. Cosa che, per altro, non credo sia totalmente vera né che si applichi nel mio caso. C’è ancora tanto che voglio fare, tanti chilometri che voglio percorrere. Forse, ora semplicemente non è il momento. Forse, è tempo di ripensarmi: di ripensare l’idea che ho di me stesso relativamente allo sport che mi piace praticare; di ripensare l’idea che ho di me stesso relativamente allo sport e basta. O, meglio ancora, al movimento e basta.
Per ora non ci sono gare da preparare, non ci sono distanze da percorrere.
Pezzi meno tristi
Bene, ora visto che ci siamo tutti intristiti abbastanza ed è pur sempre la prima domenica d’estate (sigh), se ve lo siete perso c’è il pezzo di scorsa settimana sull’europeo di atletica della nazionale italiana!
Oppure, c’è un pezzo che racconta di una mia corsa di qualche settimana fa (sigh sigh): la prima corsa estiva del 2024.
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