Come mi sono accorto del ritorno dell'estate
Bozzetto impressionistico della mia prima corsa estiva
Buona domenica!
Questa volta sono stato bravo, e alla mia promessa della scorsa puntata del fatto che sarebbe uscito Storie di Corsa ha fatto effettivamente seguito l’uscita di Storie di Corsa.
1:59:59: alla ricerca del limite con Eliud Kipchoge e Kelvin Kiptum
Una puntata difficile, perché si parla di una rivalità: che è una cosa non comune in uno sport come il podismo.
Come sempre la ascoltate su tutte le piattaforme. Qui il link Spotify; qui quello Amazon Music; qui il link Apple Music; anche Spreaker.
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È tornata l’estate?
Lavorare da casa mi ha messo di fronte a una situazione molto particolare. A Ravenna ho la fortuna di avere una stanza-studio tutta mia dove ho montato il set-up necessario per registrare e scrivere - parte del set-up è, in questo senso, anche il trasferimento di stereo, casse collezione di dischi, giradischi, alcuni pezzi selezionati della mia libreria.
Questa stanza è fresca. Ha il super potere di prendere tanta luce senza mai scaldarsi troppo. Ideale per il periodo estivo. È come lavorare in un frigorifero con il portello spalancato: bello, ma irrazionalmente a volte vivo con l’ansia che il meccanismo di raffreddamento si spenga da un momento all’altro lasciandomi a marcire al caldo che vedo fuori, tra le inferriate della finestra - sono pur sempre al pian terreno.
Così, da questo microclima fortunato ed estremamente geolocalizzato, ogni volta che mi sono spostato di circa quei tre o quattro metri che mi separano dalla porta di casa - ossia il confine con una fascia climatica completamente diversa - sia finito con il prendere il cellulare e sbraitare per messaggio:
«Oh raga, fa caldo».
Frase che mi ha procurato occhiate straniate da parte di chiunque sia stato il destinatario del messaggio. «Beh, sì, fa caldo, ma dove vivi?».
Ora, questo limbo tra freschino e tepore piacevole fa sì che le avvisaglie dell’arrivo dell’estate le colga, più che dal caldo vero e proprio, in tutta un’altra serie di segnali collaterali alla temperatura. Ad esempio: sul tavolo cominciano a spuntare le albicocche, le pesche, le ciliegie. Ecco, quando i recettori percepiscono albicocche, lì comincio a settarmi sulla modalità estate. Se vedo il cocomero, invece, lì ho in mano il telecomando dell’aria condizionata.
La mia prima corsa estiva
Ma se dovessi indicare il singolo segnale esterno che quest’anno mi ha fatto dire «è di nuovo estate», non potrei non nominare un riff di chitarra: il jingle di Reazione a Catena, il programma di Rai 1 dove si indovinano le parole.
Questa settimana non ho corso quanto vorrei. A differenza di quanto fatto tra gennaio e maggio, negli ultimi sette giorni ho cominciato a dedicare la pausa pranzo a rigeneranti siestas molto rurali - quelle che oggi chiamiamo power nap, uno di quei neologismi terribili da hustelbros (lo dico a costo di suonare boomer).
Sono riuscito ad uscire per correre solo una volta, mercoledì sera. Erano circa le sette. Il sole è ancora altissimo: fuori dalla mia fascia climatica fresca e temperata sono investito da una zaffata impressionante di caldo umido, a cui si avvince un intenso profumo di gelsomino.
Aspetto che l’orologio mi segnali con un bip l’aggancio del segnale al satellite, che mi restituirà i dati su distanza e passo. E mentre sono lì immobile come un geco, ecco l’epifania: da una finestra aperta ad accogliere il fresco della sera, quel riff di chitarra. Sono quindici secondi di note allegre, estremamente televisive. Un tema che affonda negli anni 2000: l’estate era un ininterrotto rincorrersi di minuti insensati, dove il solo nucleo di senso che ci salvava dall’oblio era quel momento in cui si provava ad indovinare la parola misteriosa. Mi figuro l’insalata sul tavolo, con i pomodori e i cetrioli; oppure i ghiacchioli alla menta a fine cena - forse è un po’ presto, c’è da aspettare un’ora, e la sigla (quella sì proprio ancien regime) del TG1.
Improvvisamente ho superato il confine tra primavera ed estate: come se un interruttore fosse stato acceso, l’intensità del caldo aumenta.
Io parto. I soliti, primi, canonici cinquecento metri mi servono per uscire dal paese e puntare verso la campagna. Supero le ultime case dell’abitato e sono in un bagno di luce calda, ho il sole di fronte. Punto l’argine del fiume.
La campagna antropizzata di Romagna - la mia versione della provincia denuclearizzata - è bionda di grano. Ho scelto un itinerario senza auto: i rumori sono ridotti al ritmo dei martelli che spezzano il flusso dell’acqua degli irrigatori, a qualche trattore che si attarda sui campi, ai cani nei recinti che fanno buona guardia al mio passaggio.
Mi prendo gli abbai e vado oltre.
Le ombre cominciano ad allungarsi; sull’argine, il sole che va e viene, va e viene tra le canne crea uno strano gioco di luci stroboscopiche filtrate dai miei occhialoni da sport con lente specchiata viola-verde. Corro in questo discolabirinto di strade - l’aria è tersa, pulitissima. Si contano gli appezzamenti di terra, le centuriazioni millimetriche sugli Appennini, lontani, e i campanili sullo sfondo sono incollati al fondale del cielo blu - un blu chimico, lontano dal sole.
La canottiera di cotone che indosso è un adesivo sul mio corpo zuppo di sudore. Le ombre si fanno più nette, a ogni cambio di direzione tra le strade che fanno slalom tra i campi la brezza cambia il proprio verso. Il meccanismo di raffreddamento del mio corpo, hack biologico impiantato sul mio hardware fiaccato dal lavoro e dall’umidità, raccoglie qualsiasi sbuffo di aria fresca e lo converte in energia. Il breve ristoro degli sbuffi mi fa dimenticare che ho sete, ma l’unica acqua che vedo è quella dei fossi.
Mi ricordo dei fossi, dove mille miliardi di grilli cominciano a cantare tutti insieme; l’acqua è stagnante, ma ogni tanto si vedono le rane fare capolino tra le mucillagini e le canne. Passo un incrocio pericoloso, lascio passare qualche auto: è il mio primo incontro con esseri umani da un po’ di tempo. Mi getto di nuovo negli stradelli adornati di cartelli stradali trasandati e sblienchi. L’asfalto è arrivato anche qui: una sola volta, la prima, e poi si è scrostato come una buccia d’arancia. Campi: questa volta gli Appennini ce li ho alle spalle, e vedo solo barbabietole verdi e alte che mi schermano dal sole. Poi grano, grano, grano, oro e bianco del cielo con il sole basso che cuoce per bene le spighe e la mia testa. Le prime trebbiatrici, pachidermiche, sono accantonate ai lati dei campi per cominciare con la raccolta nei prossimi giorni - alzeranno un polverone chiaro di pula e di terra, tornerò a casa bianco di terra la prossima settimana.
Ora le ombre sono lunghissime: sono le otto e un quarto, corro da poco più di un’ora. Non me ne ero sinceramente accorto. Torno verso casa, accompagnato dai cani del quartiere in coro.
Io e la maglietta di cotone siamo consustanziati nel sudore, mi ci vogliono trenta secondi di contorsionismo e una spalla quasi slogata per staccarla, come un adesivo, dalla pelle.
Tutte in una volta, sento le punture delle zanzare sulle gambe. Tra i sogni di Autan e la doccia che lenisce in parte il prurito, mi viene un’improvvisa voglia di ghiacciolo alla menta.
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