Le gare podistiche sono un problema per l'ambiente?
Un interrogativo scomodo all'alba della stagione autunnale dei grandi eventi su strada
Buona domenica a tutte e tutti!
Qualche mese fa ho scritto una puntata di ACPQC? che per mia grande soddisfazione ha avuto un discreto successo. Nella puntata mi chiedevo: La corsa è uno sport sostenibile? Le mie considerazioni si muovevano sui binari della provocazione benevola: quando si tratta di sostenibilità ambientale, quali subdole insidie nascondono i comportamenti degli appassionati a uno sport generalmente dipinto come green per l’amore da parte di chi lo pratica per l’aria aperta, per i parchi, le aree verdi, per la natura tout court?
Tutto partiva da una domanda:
Come si concilia il diritto legittimo di un numero sempre maggiore di appassionati di praticare uno sport con l’aumento dei consumi di risorse necessarie a sostenere quello stesso sport, alla luce di problemi ambientali esacerbati da un consumismo estremo?
Gli elementi su cui mi sono soffermato in quella prima disamina erano principalmente legati al potenziale impatto del podista amatore nella sua pratica quotidiana: cose come cambiare le scarpe una volta ogni tre mesi, l’accumulo di gadget elettronici, capi di abbigliamento, accessori.
Se siete curiosi, qui leggete il pezzo (è di inizio marzo 2024):
È il momento di fare un passo in più.
Quest’anno più degli scorsi ho percepito il bisogno di tante persone che mi circondano di ridisegnare i confini simbolici dello scorrere del tempo: non più gennaio, settembre è il nuovo capodanno! Era un cliché già in voga a cui io, per la verità, ho sempre creduto moltissimo. Sentire l’aria che cambia, il calore asfissiante di agosto che scivola via, come fosse risucchiato da un aspirabriciole, dà veramente la misura del tempo che avanza e dei cicli che finiscono e rincominciano. Settembre tabula rasa: il confine oltre al quale ci sarà un io migliore, più attivo, più attento, più lettore, sportivo, caritatevole, misericordioso; e così via.
Per un podista settembre è, al massimo, l’inizio della fine.
Nessun nuovo inizio: a settembre comincia il rush finale che accompagna l’arrivo della seconda tornata annuale di gare podistiche. Il rinfrescarsi delle temperature propizia la massimizzazione dell’allenamento e migliora la performance, e attorno a quei centri di attrazione di massa che sono le tre major marathons del periodo autunnale (Maratona di Berlino a settembre, Maratona di Chicago a ottobre, Maratona di New York a novembre - con l’aggiunta della Maratona di Valencia a inizio dicembre) gravita un numero pressoché sterminato di eventi minori - ma poi neanche così tanto - in cui noi podisti ci riversiamo per capitalizzare i mesi del duro lavoro estivo.
Oggi sono qui per dire a me stesso e a voi che tutto questo potrebbe essere un problema.
Le gare podistiche sono un’attività umana, e come tutte le attività umane hanno un impatto sull’ambiente: alcune di più, altre di meno, ma non ci si scappa. Di più. Le gare di corsa sono eventi perfettamente inseriti nella società capitalistica dei consumi: gli organismi che le organizzano devono presentare bilanci e conti economici. Sono eventi che dànno da mangiare ad alcune persone, mentre ingrossano le tasche di altre. In breve: ci sono di mezzo (tanti) soldi.
Credetemi: per il mio amore per le gare, per l’eccitazione che mi crea l’idea di scendere in strada durante uno di questi eventi e mettermi alla prova, mi piacerebbe che spazzare le scorie di questa discussione sotto un enorme tappeto fosse un gesto senza conseguenze. Nondimeno, il tempo delle discussioni amare e delle domande scomode non è una di quelle cose che si attiva con il telecomando. Non è giusto accendere i «ma» e i «però» quando ci va, e spegnerli quando rispondere non è poi tanto piacevole.
Oggi scrivo non (solo) per provocare fastidio, né per addossare ai podisti l’intero peso della questione enorme ed enormemente complicata dell’impatto dell’uomo sull’ambiente; tantomeno scrivo perché ho delle soluzioni semplici da proporre. Piuttosto, scrivo perché spero di sollevare una riflessione comune sul nostro essere sportivi più consapevoli.
Grandi numeri
Vale la pena ripartire come nello scorso episodio da qualche numero sul fenomeno del podismo, per dare una misura della portata globale del potenziale problema intrinseco alle gare di corsa.
La partecipazione ai grandi eventi podistici è definitivamente tornata ai livelli pre-pandemici. Un report di RunSignUp per il 2023 afferma che il numero di partecipanti a gare di corsa è aumentato del 10% rispetto al 2022, ed è solo dell’1% inferiore al 2019. Attorno al Globo circa 1.1 milioni di podisti si registrano per una maratona; il doppio per una distanza di grande moda come la mezza maratona. Interessante il dato sulle registrazioni di podisti tra i 18 e i 29 anni: il 15% - anche in questo caso un ritorno ai livelli del 2019.
I numeri registrati da Strava supportano la conclusione del rinnovato interesse dei podisti amatoriali per distanze che trascendono la dimensione del jogging: le persone si stanno generalmente allenando per gare più lunghe, e la maratona è finita nella bucket list di sempre più persone (valgono sempre i dati riportati da Giovanni Armanini lo scorso novembre su Fubolitix, qui).
Quale giro d’affari?
Come scontato, quando nelle cose c’è di mezzo una nicchia ampissima e - se possibile - in forte espansione, seguono i soldi (non voglio fare il populista, ma per ipersemplificare vale un po’ sempre lo stesso assunto: dove sono i soldi arrivano i problemi). È difficile trovare dati precisi sul giro d’affari che ruota attorno alle grandi manifestazioni podistiche cittadine. Un aiuto ci viene dai report che raccontano le Major Marathons. Con un Nota Bene: stiamo pur sempre parlando delle gare più importanti al Mondo per prestigio storico, culturale e sociale. Aggiungiamo che almeno due delle sei gare del circuito Major, Chicago e Berlino, sono a cadenza regolare il teatro di alcune delle imprese che ridefiniscono lo sport della corsa su strada - i record maschile e femminile sono stati stracciati nel 2023 proprio a Chicago e Berlino. I dati economici provenienti da queste gare non sono neanche minimamente paragonabili a quelli delle più importanti gare italiane, e non devono ingannarci.
Quando si parla di Major, il giro d’affari è nell’ordine delle centinaia di migliaia di dollari.
Un report di Bank of America, main sponsor della Maratona di Chicago, ci dice che nel 2022 il ricavo generato dalla Major della Città del Vento è stato di 386 milioni di dollari, con un incremento nei ricavi del 21% rispetto all’edizione del 2021. I ricavi dell’evento superano costantemente i 300 milioni di dollari dal 2018, con l’unica eccezione del 2020. I partecipanti nel 2023 sono stati oltre 48,000 - un terzo dei quali internazionali. Sono cifre non banali, che hanno un impatto diretto sul tessuto locale, soprattutto per quello che riguarda il settore dell’accoglienza e del turismo: si parla di 136 milioni da destinare a 2,848 posti di lavoro (qui la fonte) - oltre a 27 milioni di charity per finanziare 180 cause benefiche.
Possiamo immaginare numeri arrotondati per eccesso per eventi di appeal ancora maggiore come la Maratona di New York, che nel 2023 ha visto la partecipazione di oltre 51,000 partecipanti - con proporzioni invariate nel numero di podisti stranieri - o come la Maratona di Londra.
Da cosa sono attirati i podisti (e non solo)?
Nel pieno interesse della riuscita dell’evento, e quindi per attirare più soldi (nuovi sponsor, nuovi atleti, un field più cospicuo di elite runner, maggiore copertura mediatica) le organizzazioni hanno affinato macchine praticamente perfette per supportare i podisti in tutte le fasi della loro esperienza. Un’assistenza capillare prima, durante, dopo la gara: trasporti, alloggi, intrattenimento, ristori, gestione degli afflussi per accesso alle griglie di partenza e deflusso post gara; veri e propri uffici social che pian piano sono passati dal rappresentare un di più dell’esperienza (repostando le foto con gli hashtag) a essere vere e proprie cancellerie deputate alla diffusione di informazioni ufficiali sulla gara, la sua organizzazione e il suo svolgimento.
Nel mezzo ci sono comunità che a vari livelli beneficiano dell’impatto portato dalle gare podistiche. Ai lati delle strade ci sono gruppi di cittadini che si organizzano spontaneamente dal basso per vivere la veste migliore della propria città, riappropriandosi in maniera lenta, autonoma e gratuita degli spazi che per il resto dell’anno sono rubati dalla velocità delle auto; ci sono le attività di accoglienza che vedono un aumento consistente dei propri guadagni - sulla scorta dei trend positivi delineati nel panorama del turismo sportivo (mi rendo conto: ho distillato in poche parole tematiche molto complesse che intersecano discussioni più ampie sul turismo di massa). Ci sono attività locali coinvolte a più livelli per imbastire aree food, hospitality, zone fisioterapia. Ci sono persone che si avvicinano in autonomia allo sport, magari sfruttando le tante attività collaterali portate dalle organizzazioni nel weekend della gara (shakeout runs, camminate ludico-motorie, family run).
Dove sta il problema? L’impatto ambientale delle gare
Freniamo per un attimo l’entusiasmo per le ricadute economiche e (soprattutto) sociali positive dei grandi eventi podistici. Al netto degli indubbi benefici sociali, purtroppo non esiste un grande evento che non porti con sé un impatto di qualche tipo su ambiente e clima. Le gare di corsa non fanno eccezione.
Scommetto che a tutti è immediatamente venuta in mente la stessa scena: mucchi di bottiglie di plastica (ancora piene per due terzi) ai lati della strada, accumulate fuori dai bidoni per la differenziata posti al termine delle zone ristoro, o sui cordoli dei marciapiedi. La sola Maratona di Londra nel 2018 si è resa nota per l’utilizzo di poco meno di 920,000 bottiglie di plastica in una sola edizione - numero poi fortunatamente ridotto di centinaia di migliaia di unità nelle annate successive (parrebbe 215,000 in meno nel 2019). Per non parlare degli oggetti non riutilizzabili in plastica, a partire dai pettorali. Ancora: bicchieri di carta, bustine di gel, bucce di banane, arance e frutta smangiucchiata vengono lanciati in strada. E poi: i cassetti pieni di magliette in poliestere di questo o quell’evento (mai indossate), le sacche di plastica usate per i pacchi gara, medaglie, gadget. Insomma, un bel brodino di pvc.
Questi sono gli aspetti su cui buona parte delle organizzazioni sta andando ad agire per limitare i danni: oltre alla riduzione delle bottiglie di plastica e alla loro sostituzione con bicchieri di carta biodegradabile e con edible water (su internet è pieno di tutorial su come farsele a casa; nel 2019 sono state utilizzate alla Maratona di Londra), si sta passando a misure come l’obbligo per gli atleti di portare i propri bicchieri o flask riutilizzabili (specie in ambito trail running, ma con importanti avanzamenti anche per le corse su strada). I regolamenti di certe gare cercano di imporre stringenti regole di tolleranza zero (squalifica) verso chi è sorpreso nell’atto di gettare in strada i rifiuti - anche se poi sappiamo quanto possa essere facile aggirare le punizioni più severe. Altre iniziative degne di nota riguardano il tema dei gadget: alcune organizzazioni offrono la possibilità di sostituire la maglietta tecnica (di plastica) all’interno del pacco gara - già percepita da tanti corridori come un fastidioso di più da relegare il prima possibile in fondo all’armadio - con il gesto di piantare un albero. In maniera meno hardcore, alcune organizzazioni stampano magliette senza data, per riconvertire l’anno successivo gli eccessi - ad esempio per i volontari lungo il percorso. Si tenta di fare la stessa anche con la medaglia: anche se per i podisti è più difficile accettare l’idea di astrarre da questo oggetto il valore simbolico dell’impresa compiuta (qui una lista di idee per gli organizzatori delle gare).
Tutte queste azioni sono sicuramente passi nella giusta direzione. Ma se vi dicessi che né sono sufficienti, né contribuiscono a mitigare il grosso del problema?
Secondo questo articolo di Athletics Weekly:
Durante le gare di corsa il cibo, le bevande, i rifiuti, il merchandise, i generatori e gli spostamenti dello staff ammontano a meno del 2% delle emissioni dell’evento, secondo l’analisi del Council For Responsible Sport di 29 eventi a grande partecipazione.
E allora dove sta il problema?
L’elefante nella stanza: gli spostamenti degli atleti
Lo spreco di plastica e risorse, per quanto detestabile e da arginare con provvedimenti di buon senso e civiltà, è appena il pinnacolo di un iceberg quando si tratta dei consumi legati alle gare di corsa.
Uno studio del 2021 che aveva l’obiettivo di stimare l’impatto ambientale di un individuo durante il suo intero ciclo di preparazione a una maratona - considerando quindi acquisto di materiale, cibo, docce, lavaggi degli indumenti, fino al giorno della gara - mostra che mediamente un podista internazionale iscritto alla Maratona di New York rilascia circa 3.9 tonnellate di CO2 nell’aria.
Il dato che ci interessa è che per la totalità dei pochi studi a nostra disposizione, circa il 90% di queste emissioni è dovuto agli spostamenti di andata e ritorno al luogo della gara, specie quando avvengono in aereo.
Se la matematica della Maratona di New York non ci inganna, con una stima del 37% di runner internazionali (senza contare gli statunitensi che volano da Stati lontani fino a tre fusi di distanza) capiamo che le emissioni generate per la partecipazione a una singola gara sono un problema, e non da poco. La portata del danno si moltiplica per ogni Major, o importante maratona, mezza maratona, 10k o 5k internazionale che abbia il potere di attrarre per vari motivi un vasto pubblico - oltre al prestigio delle Big 6 prendiamo per esempio i tracciati velocissimi di Valencia, Siviglia, Rotterdam o Copenhagen, sui quali una fittissima schiera di podisti si lancia alla ricerca del proprio personale.
Il grafico sopra mostra l’impronta lasciata da un atleta che si iscriva ad una gara che prevede un volo internazionale partendo dalla Francia.
Tradotto nei termini di una singola gara: è stato stimato che l’impronta lasciata da un grande evento internazionale come la Maratona di Parigi - sottopostasi a un audit indipendente - sia di 26,500 tonnellate di CO2, che sono l’equivalente del consumo di 2,600 giri in auto attorno alla Terra (o dell’intera esistenza di 34 persone).
L’impatto di un atleta che scelga una gara vicina a casa, idealmente raggiungibile in treno decresce quindi del 90%, assestandosi a neanche una tonnellata di carbonio (circa 635 chili).
Sopra, un grafico dallo stesso studio, con la previsione dei consumi stimati per un atleta che si iscriva ad una gara raggiungibile in treno per una distanza cumulativa di 1000 chilometri tra andata e ritorno.
Un problema da mitigare
Delineato il problema, la messa in atto di soluzioni efficaci dovrebbe arrivare da due direttrici.
Da una parte, se le organizzazioni volessero davvero mostrarsi interessate alla causa che professano di sposare con l’adozione di gesti di sostenibilità, dovrebbero avere il coraggio di accantonare i progetti di crescita infinita. Tradotto: limitare il numero di pettorali a disposizione per atleti internazionali, con il rischio di scontentare qualcuno. Una soluzione che contrasta con il diktat del capitalismo sfrenato e la smania di fare ogni anno “il numero”, con livelli record di atleti e accompagnatori da più parte del mondo.
Le barriere all’ingresso poste dai New York Road Runners o dalla Boston Athletic Association - richiesta di un tempo di qualificazione, ballot, un prezzo maggiorato per atleti provenienti fuori da New York e per gli internazionali - non sembrano scendere nel merito della questione, e sono precauzioni più organizzative e di sicurezza che altro .
All’impellente necessità di forzare l’esclusione di qualcuno in nome di un bene superiore non fanno seguito le parole degli organizzatori. Anzi: la china presa sembra proprio quella opposta. Sulle ali dell’impatto benefico delle gare sulle comunità e dei finanziamenti destinati alle charity, i direttori si augurano un futuro con un numero sempre maggiore di partecipanti - anche sulla scorta dell’introduzione di importanti novità come l’introduzione di una categoria per gli atleti non-binary e per una più equa ripartizione dei premi destinati agli atleti non-elite (prendiamo, ad esempio, le parole del direttore degli eventi della città di Philadelphia). Anche gli eventi più “piccoli” (lo fanno gare da 10/20,000 pettorali come le Maratone di Roma o Milano) per massimizzare gli ingressi hanno cominciato a costruire opzioni di gara più accessibili: penso a quell’evento nell’evento che sono le staffette, in cui quattro atleti si dividono quattro porzioni dei 42 chilometri della maratona - meno chilometri si traducono in molte più possibilità di partecipazione, dove runner della domenica possono vivere l’esperienza della gara senza l’impegno di dover preparare una maratona, ma moltiplicando per quattro il problema degli spostamenti. (Disclaimer: l’iscrizione alle staffette spesso avviene attraverso la devoluzione di una buona parte della quota a un ente benefico).
Come sempre conciliare il problema di un fenomeno che economicamente funziona e che ha una ricaduta positiva sul tessuto sociale con le istanze di tutela ambientale e climatica è un’impresa ostica, e rischio di passare per un guastafeste o un menagramo.
Ma è qui che entra in gioco la seconda direttrice che può contribuire a una svolta nel problema: una maggiore consapevolezza da parte di noi runner. La sindrome da Strava che ci vuole brillanti, performanti, che ci chiede di correre ogni anno più chilometri, di avere l’Heart Rate più basso con un passo al chilometro più alto ha colpito anche e soprattutto il mondo delle gare: per tante persone un weekend senza un pettorale è un weekend perso, e lo status symbol da runner si quantifica nel numero di medaglie ordinate sul muro, o impilate in una scatola.
Ma gareggiare così tanto ci serve davvero? E se cominciassimo a limitare il numero di gare a cui partecipiamo? E se cominciassimo a essere più consapevoli nella scelta delle nostre gare?
Le soluzioni ci sono: oltre alla riduzione nel numero delle iscrizioni, si può partire dallo scegliere gare locali, prediligere destinazioni raggiungibili in treno, o in car sharing; scegliere eventi in cui siano messi a disposizione dalle organizzazioni mezzi di trasporto per il raggiungimento della linea di partenza. E nelle quali, infine, siano rispettate le più basilari scelte green per evitare il più possibile gli sprechi.
Molte questioni restano complesse e irriducibili a qualche punto da elenco come quelli qui sopra. Come ho già specificato più volte è impossibile costringere la complessità di questi argomenti entro poche righe. È anche impossibile fare i conti con la sensibilità di tutte e tutti: so già che c’è chi mi rimprovererà, mi dirà di tenere giù le mani dalle gare perché, in fondo, hanno un impatto relativamente limitato rispetto ad altre attività umane; che non è giusto fare blaming a noi poveri Cristi quando la fetta più consistente della colpa ce l’hanno i soliti colossi impuniti. Fuffa benaltrista: non agire dove sappiamo di poter avere un impatto anche minimale è una scelta. Ognuno ci farà i conti come crede.
Il mio augurio è proprio quello che abbiate concluso la lettura con delle domande, per voi stessi e per i vostri compagni e compagne di corsa. A questo proposito, chiudo riprendendo ciò che ha scritto Giovanni Armanini a corollario di un interessante articolo di
uscito lo scorso martedì 10 settembre:Siamo portati a pensare ai giornalisti come a persone che danno risposte. Ma è più vero il contrario: il giornalista bravo fa ottime domande. E pone anche molti interrogativi a se stesso. Andare alle origini, alla storia, ai significati ed ai perché è la parte più importante del lavoro giornalistico.
Le fonti di questo pezzo
NB: nonostante abbia fatto del mio meglio per essere preciso nei termini e nelle cifre, ci potrebbe essere qualche errore. Se vi va di segnalarmelo rispondendo alla mail, o riportandolo nei commenti ve ne sarei grato.
Report di RunSignUp con qualche dato sulle partecipazioni a eventi podistici.
Report di Bank of America con i dati economici attorno sulla Maratona di Chicago 2022.
Un articolo di Athletics Weekly che indaga a fondo il tema dell’impatto degli spostamenti degli atleti.
Un articolo che racconta il boom di iscrizioni alle maratone a partire dal periodo post-pandemico.
Lo studio dell’International Journal of Environmental Research and Pubblic Health sull’impatto di un atleta che prepara una gara.
In conclusione
A proposito dello scorso episodio su Jakob Ingebrigtsen: venerdì sera il nostro atleta ha vinto la finale dei 1500 metri alla Diamond League di Zurigo. Ha battuto per la terza volta in due settimane il campione olimpico Cole Hocker.
Nel frattempo, sabato 14 settembre ha annunciato che il giorno seguente avrebbe preso parte alla sua prima Mezza Maratona ufficiale, a Copenhagen. Le previsioni per la Danimarca segnano sole e una massima di 18 gradi: condizioni perfette per un debutto che secondo molti potrebbe essere uno shock per il fondo - In tanti si sbilanciano e parlano di Record Mondiale; abbiamo visto com’è finita al debutto in Maratona del campione olimpico dei 10,000 metri Joshua Cheptegei (spoiler: male), e quindi sarei più conservativo (mi sbilancio? Tempo finale inferiore all’ora).
Qui, intanto, il pezzo di scorsa settimana.
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Grazie per averci “interrogati” (nel senso latino del termine) prima di uscire con l’articolo.
La cosa su cui sono più d’accordo è il nostro essere Strava Dipendenti per i motivi che elenchi. E la cosa su cui però cercherò di riflettere è che di fatto il nostro è turismo podistico, credo che gli “stessi” numeri riguardino il turismo.
Chapeau 👏