Don't look back in anger, Jakob
Com'è andato il mese post olimpico di Jakob Ingebrigtsen? Storia di come un campione processa la delusione
Buongiorno a tutte e tutti!
Innanzitutto, un benvenuto ai tantissimi nuovi (e inaspettati) iscritti che per la prima volta si sono ritrovati questo strano acronimo ACPQC? in casella. Facciamo le presentazioni: A Cosa Penso Quando Corro? è uno spazio in cui si parla di running, come sport da guardare, come sport da praticare; come fatto sociale, economico, culturale e introspettivo. Ogni domenica mattina alle 10.00 esce una puntata. E quella che leggete è la prima della terza stagione!
Per recuperare le puntate precedenti potete consultare l’archivio:
Buongiorno da Stoccolma
Apro la terza stagione da Stoccolma, dove mi trovo per lavoro. Il tempo per scrivere è stato ritagliato in aeroporto, negli spostamenti, in ore rubate al sonno.
Quest’estate ho avuto modo di visitare la Norvegia e di passare brevemente per la Svezia, i paesi di due atleti generazionali come Karsten Warholm e Mondo Duplantis, rispettivamente detentori del record mondiale nei 400 metri a ostacoli e nel salto con l’asta. Dopo mesi di amorevoli battibecchi, i due amiconi hanno deciso di sfidarsi pubblicamente in una finale dei 100 metri andata in scena mercoledì scorso alla Diamond League di Zurigo.
Non perdetevi la gara (qui). Innanzitutto perché è divertente, poi perché il messaggio e l’hype creato dalla sfida sono qualcosa di positivo per l’atletica, e infine perché, come nota il The Athletic, anche una manifestazione come questa è un modo per cogliere la profondità del numero incredibile di atleti fortissimi che oggi bazzicano lo sprinting.
E ora, cominciamo con la storia di oggi. Rimaniamo nel Nord Europa.
Mi è servito far passare un paio di settimane dallo scoppio della bomba per scrivere qualcosa sugli Oasis.
Né il timing, né l’argomento sono dei più furbi: a oggi, chi aveva qualcosa di sensato da dire l’ha detto - l’ha detto anche chi non aveva proprio nulla da dire, figuriamoci chi aveva qualcosa di non sensato da dire. È stata semplicemente una notizia troppo grossa: una notizia che, come una perturbazione atlantica di quelle annunciate con titoli catastrofici sui siti meteo, ha spazzato via la brat summer. L’autunno del Mondo è arrivato, cari amici musicofili: tirate fuori i parka e ingrassate le Gazzelle. I motori di ricerca hanno cominciato a indicizzare una sequela infinita di power ranking (miglior album, miglior singolo, miglior litigio), articoletti manieristi del tipo «Liam, Noel e quel rapporto speciale con l’Italia», consigli per accaparrarsi i biglietti (concomitanti all’insorgere di veri e propri dibattiti sulla moralità dei prezzi degli stessi). Nel frattempo Tony McCarroll (chi?) è diventato il personaggio più biografato del web.
Martedì il mio primo pensiero quando è spuntato quel post serioso, scritto con la gravità con la quale un capo di stato su X annuncia una svolta geopolitica di scala internazionale - The guns have fallen silent. The stars have aligned. The great wait is over - è stato lo stesso, malevolo e superficiale di più o meno tutti i membri della mia bolla: anche Liam e Noel Gallagher devono pagare le bollette. Che la storia possa avere una morale positiva non è venuto in mente a nessuno, men che meno a me: che qualcosa più dei soldi possa aver fatto breccia nei cuori di due uomini di cinquanta e rotti anni non è una possibilità contemplata. Fa parte dei personaggi.
Jakob Ingebrigtsen: Supersonic
Non dirò che il fatto che la tanto agognata reunion abbia intersecato i giorni in cui Jakob Ingebrigtsen ha infranto il record del mondo sui 3000 metri sia qualcosa di più di una coincidenza.
Jakob alla Diamond League della Silesia avrebbe vinto 3000 e 1500 metri, Liam e Noel avrebbero fatto impazzire tutti quanti con l’annuncio delle date in Madre Patria: le loro e le nostre vite sarebbero comunque continuate serene, pacate e (forse) appagate da almeno una di queste due notizie totalmente scollegate l’una dall’altra. Nondimeno in quei giorni gli Oasis nella mia testa sono stati un tarlo, che mi ha scavato nel cervello fino a trovare l’immagine di Ingebrigtsen genuinamente felice dopo essersi intascato il record mondiale sui 3000 metri.
E alla fine ho capito: a fare il giochino in cui i musicisti sono sovrapposti alle band, per Jakob Ingebrigtsen gli Oasis calzerebbero a pennello.
Alla fine la sua è una storia di fratelli (solo miele tra gli Ingebrigtsen, sia chiaro); è una storia di grugni incazzati, di sorrisetti tirati, di sarcasmo - quel sarcasmo che ammicca con la violenza verbale (per non dire che ci flirta) -, di spocchia, di competizione smodata, di parole forti. Come se non bastasse, Jakob ha recentemente frequentato lo studio di registrazione. Ha inciso un singolo insieme ai fratelli, che si sono chiamati The IngerbritZ: sulla coincidenza tra quel BRITZ paludato nel nome e il concetto di britpop non mi voglio esprimere. Dall’altra parte, fatta eccezione un feeling di Liam Gallagher per il jogging - passione travagliata dall’artrosi - che io sappia nessun membro degli Oasis ha mai frequentato le piste di atletica, né tantomeno è andato vicino a correre tre chilometri in 7 minuti e spicci. Soprattutto, la parabola di Jakob Ingebtigtsen è costellata di un pubblico di detrattori permeato da un’ostilità morbosa, gente genuinamente contenta quando toppa: perché quando le toppe le fa uno come lui generalmente fanno più rumore.
Il curriculum immacolato dell’età adulta del precocissimo Jakob - lo stesso che a undici anni si allenava con i fratelli maggiori Henrik e Filip, atleti affermatissimi in campo internazionale, e che veniva incensato dalla benedizione del maggiore del terzetto con parole come «He’s genuinely born to run» - è macchiato da due toppe così grosse che hanno fatto e faranno gongolare parecchia gente per un bel pezzo. Mondiale di Budapest 2023, Olimpiadi di Parigi 2024. Dodici mesi di distanza, un infortunio al tendine d’Achille da smaltire, e un lavoro chirurgico della stampa di settore nel costruire una figura caricaturizzata all’estremo. Nel mezzo la storia di un atleta ossessionato dalla sua etichetta di predestinato, costretto a fare i conti con il concetto di sconfitta e con la perdita di controllo della narrazione attorno alla sua figura pubblica.
Jakob Ingebrigtsen sta facendo di tutto per mettere le cose a posto una volta per tutte dopo il tonfo più rumoroso: il quarto posto olimpico nella sua gara, i 1500 metri.
I dolori del giovane Jakob
Il rapporto di Ingebrigtsen con la comunicazione non è nulla di nuovo per un atleta abituato a vivere la competizione in maniera morbosa. I media lo odiano. O almeno: ci danno a intendere che lo odiano. È il gioco più vecchio del Mondo, trovi una bomba a orologeria come lui (o come Liam o Noel Gallagher), gli servi la polemica su un piatto d’argento, infiocchetti la risposta un po’ come vuoi tu. E poi raccogli quello che hai seminato: interazioni d’odio. Sbruffone, pagliaccio, cocky, arrogant: gliene hanno dette di tutti i colori. Sia ben chiaro: non che lui non ci metta del suo, anzi, e non che chi è dall’altra parte sia uno stinco di santo (Josh Kerr, parlo di te: quei permalosoni degli atleti).
A leggere i toni delle schermaglie con Josh Kerr dopo il pasticciaccio brutto del mondiale di Budapest 2023 (Ingebrigtsen esulta platealmente in semifinale, bruciando Kerr al fotofinish; poi Kerr lo supera negli ultimi 100 metri della finale) verrebbe quasi da dare ragione ai detrattori e alle loro critiche accese. Tutto questo affare è stato un enorme vasetto di marmellata per almeno due categorie di interessati: da un lato, c’è chi è stato contento che una gara del mezzofondo generalmente ritenuta noiosa dai non appassionati come i 1500 metri sia finalmente al centro di qualche attenzione, pur attraverso il filtro di una rivalità portata a un livello francamente bambinesco; dall’altro c’è la stampa assetata di gossip, che fa il proprio lavoro. Ingebrigtsen sminuisce l’oro mondiale di Kerr, Kerr butta benzina sul fuoco («che parli, il campione del mondo resto io»): per stare con il nostro gioco musicale esplode una battaglia del britpop alimentata dagli specialisti del settore, che mattone dopo mattone costruiscono una diarchia polarizzante attorno a cui imbastire un palinsesto di articoli acchiappaclick.
Su imbeccata dell’uno o dell’altro intervistatore, giornalista, opinionista i due se le cantano per un anno, se le suonano moderatamente durante vari eventi più o meno prestigiosi, e per il concerto di chiusura hanno a disposizione uno stage di primo piano come la finale Olimpica del 2024. Il campione olimpico uscente contro il campione del Mondo in carica.
Parigi è la tempesta perfetta. Alla fine quel chiacchierone di Jakob Ingebrigtsen è spodestato da Josh Kerr: che a sua volta è spodestato da un nuovo arrivato out-of-nowehere (letteralmente), Cole Hocker (di questa gara ho scritto qui). Kerr alla BBC gongola con l’argento al collo come avesse vinto un oro - è una figura migliore di quella che ha fatto Ingebrigtsen? Si è comportato in maniera più matura?
La sconfitta è l’occasione per rinfacciare una volta per tutte a Ingebrigtsen quello che lui ha sempre rinfacciato agli altri. Quando conta qualcosa è incostante. È un contrappasso: in un mini-documentario dal titolo Jakob. The next chapter (si vede qui su YouTube), Ingebrigtsen si fa vanto di quanto i suoi avversari nel corso del tempo cambino velocemente. Cheruyiot, Nuguse, Kessler, Kerr, Hocker… Questi nomi potranno fare bene una gara, ma lui è sempre là davanti. L’unica costante in un mondo di One Hit Wonders. Altrettanto costantemente, quando conta qualcosa, capita che lui sbagli, specialmente nei 1500 metri. È successo nel 2023 al mondiale di Budapest; è successo alle Olimpiadi di Parigi, quando Cole Hocker, lo stesso Josh Kerr e Yared Nuguse gli hanno rubato il podio negli ultimi 100 metri dopo 1400 di dominio in testa. C’è chi dice che se l’è cercata, che la strategia di condurre la gara in una competizione che non ammette lepri è stato un suicidio.
Ribaltare il Karma
A poche ore dalla sconfitta nei 1500 metri, nel pieno di un’Olimpiade tutt’altro che finita - quattro giorni dopo porterà a casa un oro nei 5000 metri, in una gara controllata dalle retrovie fino alla messa in mostra di tutto il suo strapotere fisico nell’ultimo giro - Jakob con un post su Instagram rompe il silenzio. Pur con uno stile diverso, la gravità dei toni è quella del post dei fratelli Gallagher: un discorso alla nazione.
Nel bruciore della sconfitta olimpica, Jakob fa in tempo a giocare con sé stesso in un mini capolavoro di retorica, nel quale butta dentro una serie di argomenti che spaziano da una riflessione universale sulla corsa, a un ringraziamento ai fratelli «che hanno mostrato alla nazione dove la Norvegia possa arrivare». Andando nel merito della prova, Hocker, Nuguse e Kerr (secondo e terzo in ordine invertito) lo hanno battuto con intelligenza.
My team always say that “because you have a big mouth and is the one to beat, you have everything to lose in competitions”. Today, Cole Hocker, Yared Nuguse and Josh Kerr outsmarted me. They were “the best guys” when it really mattered. And I want to congratulate them all on a great performance!
Sono stati “i migliori” nel momento in cui contava, lo hanno “battuto in intelligenza” sfruttando il lavoro sporco che lui ha portato avanti per tutta la gara, conducendo in testa. “I migliori”: ma tra virgolette, quasi come non fosse vero, come fosse una condizione transitoria e lo scettro sia inevitabilmente destinato a tornare a lui una volta che le acque si sono calmate. Ma visto che lo sono stati, congratulazioni.
Non tutti gli sportivi di élite smaltiscono l’acido lattico della sconfitta allo stesso modo. Per alcuni i tempi di recupero emotivo e psicologico rischiano di allungarsi considerevolmente. Un caso per tutti è quello di Carlos Alcaraz, che dopo la sconfitta contro Djokovic in finale olimpica non è riuscito a espellere i metaboliti della disfatta in maniera efficace, e ha subito una dolorosa sconfitta in tre set a zero al secondo turno dello US Open. Non è bastato il supporto incondizionato dell’intero mondo del tennis a una figura positiva come quella di Alcaraz per arrestare l’emorragia di risultati positivi. Non che ci sia da disperarsi: è una fase, e così va vissuta.
Per altri lo scoppio della bolla di tensione che si costruisce attorno alle aspettative per un grande risultato in un grande evento rappresenta una specie di fresh new start. Di nuovo: non che l’Olimpiade di Jakob Ingebrigtsen sia stata una Caporetto tout court. Si è portato a casa l’oro che gli mancava nella specialità su cui attualmente è dominatore incontrastato, i 5000 metri. Una medaglia praticamente solo da ritirare. Resta una vittoria che traspare in controluce nei negativi della sua fotografia di grande sconfitto sui 1500 metri. La soddisfazione per l’oro è ancora macchiata dall’ossessione per l’occasione persa nella gara di qualche giorno prima.
La caption che correda il post pubblicato dopo la vittoria si chiude con:
Tomorrow, I start preparing for my two next Olympic gold medals #LA2028.
Il finale di stagione alla Diamond League offre a Jakob almeno un paio di occasioni per cominciare una complicata operazione di riscatto personale e sportivo. Il 25 agosto ha un primo re-match con niente meno che Cole Hocker, il campione olimpico. Ingebrigtsen azzanna la gara con la voracità di un orso bianco. Si mette al passo delle lepri (che in Diamond League sono concesse) e sull’ultima curva - che gli è stata fatale sia nel 2023 che nel 2024 - apre il gas e neutralizza il formidabile kick di Cole Hocker: fa segnare un 3.27.83 - appena due decimi superiore al personale dell’americano (tempo con cui ha vinto le Olimpiadi). Dopo due secondi che scorrono lentissimi anche il campione olimpico taglia il traguardo.
I due si cercano e si abbracciano: Ingebrigtsen accoglie Hocker sotto le sue braccia da piovra. Nell’abbraccio si percepiscono tutti i dieci centimetri di differenza in altezza tra i due, e il campione olimpico sembra ridimensionarsi di fianco alla grandezza del predestinato.
Cole Hocker da neo campione olimpico racconta che da Parigi «il fisico avrà recuperato, ma le pressioni mentali di essere un campione olimpico rimangono». Ingebrigtsen a una domanda molto simile sullo stato del suo recupero dice che «se in sedici giorni non recuperi per una gara da tre minuti e mezzo hai un problema». Toni comunque distesi: Jakob parla di sé, e nulla fa pensare che non dovremmo credere alla sua buona fede.
Due giorni dopo, il 27 agosto Ingebrigtsen confeziona il suo capolavoro dell’anno. Record del mondo nei 3000 metri: una disciplina non olimpica - nondimeno un pallino per Jakob, visto che Josh Kerr è considerato (e si considera) una specie di asso della distanza. In 7 minuti e 17 secondi Ingebrigtsen spazza via il precedente record di circa tre secondi. All’arrivo Jakob - di nuovo, il vuoto tra lui e tutti gli altri - sembra genuinamente incredulo, per la prima volta dopo tanto tempo. Si prende le testa tra le mani, sorride. Afferma: «Per il modo in cui mi alleno è sempre difficile per me prevedere il tempo in cui riuscirò a correre un personale. Ma non pensavo di poter correre questo tempo».
La delusione dei 1500 metri di Parigi non è niente più che un prurito. Fastidioso. L’intervista post gara per Citius Mag si apre così:
«Dopo i 1500 di Parigi hai detto che ti mancava qualcosa: dopo questo record del mondo l’hai ritrovata?»
«No»
How soon is now?
Il modo in cui Jakob affronta la sua macchia olimpica comincia ad assumere le sembianze di un’elaborazione del lutto. Vogliamo essere maliziosi? Siamo maliziosi. Tra le righe ha negato la possibilità che gli altri possano essere “i migliori” per più di una sera; si è arrabbiato per l’occasione persa; ha patteggiato con la realtà dei fatti, c’è almeno da essere fieri di aver fatto della Norvegia la nazione da battere, e comunque Los Angeles sarà l’occasione in cui risorgere più splendente che mai con il suo doppio oro; e infine, il lungo periodo della depressione - un lungo periodo in cui non importa quello che accadrà, i risultati che otterrà, ma sa che dovrà scontare la pena di non esserci stato quando contava.
Purtroppo per Jakob non ci si può svegliare sperando che le Olimpiadi siano il prossimo anno: ma è proprio per questo che le storie olimpiche sono così speciali. Nel frattempo ci sono occasioni per ricominciare a costruire: e in un circuito particolarmente ristretto non vanno aspettate più di tanto. La data segnata sul calendario di Jakob Ingebrigtsen è la sera del 5 settembre a Zurigo, durante la Diamond League. Per i 1500 metri va in scena un rematch fedelissimo della finale Olimpica, se possibile ancora più eccitante rispetto alle premesse della gara di Parigi, perché sta volta per tre posti sul podio ci sono quattro atleti: Ingebrigtsen, Nuguse, Hocker e Kerr. Nella presentazione dell’evento non mancano parole dolci per Josh Kerr: «la sua grande capacità è quella di esserci sempre quando conta di più», che è quello che diceva di sé stesso fino a qualche settimana fa.
Jakob si sveglia la mattina prima della gara con la febbre. Sta un po’ meglio il giorno della competizione, non è al 100%. Scende in pista, si mette diligentemente in coda alla lepre di testa: conduce l’ultimo giro, fino all’ultima curva. Di nuovo. Yared Nuguse, l’uomo che gli ha rubato il podio di Parigi, gettando benzina sul fuoco della sfida persa con Josh Kerr, lo brucia sul finale con una cadenza raddoppiata, con un piede più veloce. Cole Hocker e Josh Kerr sono lontani.
«Competere con la febbre: probabilmente non la miglior medicina. Non presentarsi: non un’opzione, a meno che io non sia mezzo morto. Non la mia miglior performance, ma soprattutto: una grande performance di Nuguse».
Manca solo una fase: l’accettazione. Don’t look back in anger, Jakob. Tu fai i conti con la sconfitta e con la vittoria, ricostruisci come meglio credi. Noi ci godiamo un atleta straordinario e straordinariamente umano (non serve un documentario per dircelo), con tutte le sue sfaccettature e con tutte le sue idiosincrasie. Non è forse questo che ci fa amare gli atleti e le loro storie?
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