La maniera in cui ho concretamente e tangibilmente capito di aver compiuto gli anni, e quindi un passo ulteriore verso la maturità (relativamente a cosa non lo so), non è stata una festa di compleanno con le candeline, né la newsletter di un qualche servizio a cui mi sarò iscritto 15 anni fa - e a cui devo aver lasciato la data di nascita - che pensa bene di inviarmi lo sconto COMPLEANNO10 per farmi un bel regalo.
No, nulla di tutto ciò. È capitato mentre ero in treno recandomi a Milano. Mi arriva una notifica mail di ATM che mi dice:
Lorenzo, il tuo abbonamento è scaduto.
Che tragedia. E allora via, sull’app a rinnovare l’abbonamento.
Dopo essermi (ovviamente) fatto inviare la mail di recupero password - c’è chi lo fa ogni volta, perché si ostina a cambiare la maiuscola all’interno del nome del cane nella convinzione di ricordare la formula segreta una volta per tutte, e chi mente - mi ritrovo davanti alla solita schermata ATM.
Abbonamenti Under 27, click:
App: spiacenti, non ci sono abbonamenti disponibili per te qui.
Io: ma com’è possibile, ci deve essere un errore, l’app sarà crashata - chiudiamo e riapriamo.
Abbonamenti Under 27, click:
App: spiacenti, non ci sono abbonamenti disponibili per te qui.
Io: - sale il sospetto - aspetta un attimo… ma io ho proprio compiuto 27 anni.
Faccio la matematica: under 27 = fino a 26 anni e 364 giorni sì, dopo no.
E io ero nel dopo no da quasi una settimana.
Ma guarda te in che forme banali si manifesta il segno del tempo che passa, penso tra me e me. D’altra parte, da piccolo ero semplicemente convinto che diventare grande volesse dire che una serie di cose non mi avrebbero più fatto paura (tipo andare sul Katun a Mirabilandia, o fare l’esame di maturità), e soprattutto ero convinto che avrei capito. Non so bene cosa, ma il dono della conoscenza mi sarebbe stato recapitato da qualche entità legata al passare del tempo.
Ebbene, questo segno tangibile del tempo che passa, tanto tattile quanto può esserlo un messaggio di errore sull’app del trasporto pubblico locale, mi ha portato a riflettere su alcuni step che ho compiuto nel collocare la mia immagine nel mondo.
Un universo indifferente
Quando ero più piccolo, pensavo che tutto quello che mi capitava fosse funzionale alla trama di un film invisibile, di cui io ero l’unico protagonista. La trama era imperscrutabile, ma, come ogni ragazzo che ha la fortuna di nascere in una famiglia che non gli fa mancare nulla, vivevo nella convinzione che il film dovesse essere a lieto fine.
La vedevo un po’ come quell’ingenuo di Pangloss, il precettore di Candido nell’omonimo romanzo di Voltaire.
[Pangloss] dimostrava mirabilmente che non c’è effetto senza causa, e che in questo migliore dei mondi possibili… è provato, diceva, che le cose non potrebbero andare altrimenti: essendo tutto quanto creato in vista di un fine, tutto è necessariamente inteso al fine migliore.
Insomma: mi vedevo un po’come il personaggio di un Truman Show, ma non mio malgrado - ci sguazzavo.
Cosa è cambiato?
Quando sei alle elementari sei fissato con i supereroi (lo zaino di Spiderman, l’astuccio di Dragonball, il quaderno di Hulk ecc.): è il periodo in cui, ingenuamente, ti auguri che ti sia data la possibilità di dimostrare il tuo valore affrontando qualche mostro, perché sai che sarai pronto per il solo fatto che sei il protagonista di un film.
Per farla breve, se il dottor Octopus, il Green Goblin, o Megatron un giorno avessero deciso di attaccare le Ville Unite di Ravenna, in qualche modo ne saremmo usciti (grazie ai miei super poteri, tra i quali si annovera la capacità di costruire cose con i Lego Technic).
E poi i mostri arrivano per davvero: chi di più, chi di meno, chi di più temibili, chi di mostriciattoli, tutti ne affrontiamo alcuni, non tanto perché è nel nostro destino combattere gli schiaffi che la vita ci manda, quanto più perché semplicemente è così che va la vita. Si prendono schiaffi e schiaffetti per il 90% del tempo.
Diventare grande, per me, sta significando capire questo: è normale prendere colpi e la vita non è meno bella, o meno degna di essere vissuta per questo. E soprattutto: non è che se le cose non vanno bene qualcuno o qualcosa ce l’ha con me. È che le cose succedono e basta.
La massima di John Holmes sull’universo è fondamentalmente vera.
L’universo non è ostile, né amichevole: l’universo è semplicemente indifferente.
È una presa di coscienza che lì per lì ho elaborato non senza connotarla di tratti tragici. Realizzare di non essere il personaggio principale di una fabula a lieto fine dall’intreccio complicato inizialmente mi ha intristito.
Poi mi ha rilassato.
Innanzitutto, smettere di sentire la pressione che deriva dalla responsabilità di dover essere l’eroe a tutti i costi di una storia è stato un sollievo.
Non che ognuno di noi non sia il personaggio principale della propria vita, ci mancherebbe. Cerco solo di mettere in discussione il fatto che le cose che ci succedono accadano solo per il fatto di dimostrare quanto possiamo valere. Quello succede a posteriori.
Ancora più sollievo mi ha portato il rendermi conto di essere circondato di persone che mi vogliono bene e mi amano, in modi tutti loro. E amarsi è un po’ smezzarsi il fardello: nessuna persona che ti vuole sinceramente bene vorrebbe che ti addossassi una sfiga qualsiasi da solo - in effetti affrontare i casini in gruppo è la prima precauzione che gli esseri umani hanno adottato per uscirsene da diversi casini (a tal proposito ripropongo sempre la lettura del Più grande uomo scimmia del pleistocene di Roy Lewis e di Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond).
Riconosco di essere fortunato perché anche se il fine non è lieto almeno ai titoli di coda del film almeno si piange in due, tre, quattro.
In secondo luogo, ho rivalutato completamente il modo in cui incassare i colpi - che arrivano in ogni caso, è fisiologico. L’altro giorno leggevo un passo di Seneca a tale proposito. L’opera è La fermezza del saggio. Scrive Seneca:
Nulla in natura è tanto sacro da non trovare un sacrilego… è invulnerabile non quello che non viene colpito, ma quel che non viene leso. È forse dubbio che la forza più sicura è quella che non è vinta piuttosto che quella che non è messa alla prova, dato che sono dubbie le forze non sperimentate, mentre a ragione è considerata assolutamente salda quella fermezza che respinge tutti gli attacchi? Così tu sappi che il sapiente è di migliore qualità, se nessuna offesa gli nuoce, piuttosto che se non gliene viene fatta nessuna.
Voce del verbo rimandare
Quante volte mi è capitato di ritenermi il povero protagonista della mia storia, vessato dalla sfiga. Invece erano solo cose che accadevano: e ad essere mal calibrate erano i miei meccanismi di difesa alle cose che accadono.
In un mondo in cui tutto è funzionale al racconto di noi stessi (ne parlo qui), e il racconto di noi stessi si tramuta nel trampolino di lancio perfetto per giustificare il nostro egoismo più becero attraverso il ribaltamento di situazioni che ci hanno provocato sofferenza come esperienze formative imprescindibili dei nostri caratteri deviati, le nostre difese immunitarie contro la vita che accade sono estremamente basse.
Il modo migliore che tanti di noi hanno sviluppato per difendersi è evitare le situazioni, svicolare, sviare.
E quale status migliore di quello di vittima per evitare di affrontare quello che succede per il solo fatto che il mondo va così? Parlo anche di me stesso, mi ci metto in mezzo con le scarpe.
Ci terrorizza la paura di affrontare le cose, e il modo migliore che troviamo per affrontarle è… non affrontandole, appioppando tutta la fetta di colpa a un mondo che non ci capisce, che non ci comprende, che ci mette i bastoni tra le ruote. La cultura del piagnisteo del nostro quotidiano - senza scomodare tematiche di cui non sono tenuto a discutere - affonda le proprie radici in questo continuo bordone di lamentele, su quanto ingiusta sia l’esistenza contro di noi.
Ho riflettuto anche troppo
Ma ora basta con le elucubrazioni. Sono sempre io, quello che tesse l’elogio della leggerezza come mezzo per parlare delle cose, e la direzione che sta prendendo questa trattazione è opposta.
Il segreto per correre tanto, come dicevo nella scorsa puntata, è pensarci troppo e correre. Appesantire il gesto con considerazioni sulla corsa stessa è un affaticamento inutile, almeno durante il gesto.
Che la stessa cosa valga anche per il diventare grandi? Che valga la pena smettere di pensarci e vivere come ci pare? O che - per evitare derive tipicamente italiote da manzo incamiciato di bianco di mezza età al papeete - sia, invece, più consigliabile non dismettere lo spirito critico con cui si guarda ai propri sentimenti, ma imparare a tarare i pensieri, le ansie, le preoccupazioni, permettendo di solo alle cose che contano sul serio di attraversarci?
Alcuni spunti per chi giunge fino a qui:
Una puntata di Daily Cogito di Rick Dufer che mi è piaciuta tantissimo e in parte riprende i temi che ho affrontato in questa puntata (qui il link).
Un libro di Roberto Mercadini che ho letto quest’estate e che ho trovato un ottimo modo per approcciarmi a un libro tanto famoso quanto sconosciuto come la Bibbia in maniera semplice e accessibile a tutti (qui il link).
A proposito di universo, un video sulla storia dell’universo che lì per lì mi ha terrorizzato, poi mi ha messo in pace con me stesso (qui il link).
Questa intervista di Nicolas Lozito a Marco Paolini sul Vajont mi ricorda che si tratta di una faccenda di cui so molto poco e di cui sento parlare molto (troppo) poco; soprtattutto dopo quello che è successo a maggio a due passi da casa (qui il link).