Allucinazioni dell'eccezionale
Tutte le persone al mondo hanno vite eccezionali tranne te? Leggi qua.
Da quando è partita la nuova stagione di A cosa penso quando corro? ho cominciato a domandarmi in maniera sempre più insistente se valga la pena o meno scrivere ogni santa settimana, tutte le domeniche.
Ma come: la chiave del creator digitale (sono un creator digitale?) è la costanza e tu metti in dubbio questo sacrosanto principio? No, sia mai, chiedo scusa al nume tutelare dei creatori di contenuti digitali - forse è ChatGPT - e vado avanti.
Il dubbio che ho avuto è questo: io racconto la mia prospettiva su cose a cui penso, su cose che mi capitano, o su cose che capitano e basta. Provo a dare un taglio eccezionale, a raccontare la mia versione dei fatti, il mio filtro alla realtà.
Eccezionale. Questa parola che mi gira nella testa e mi ricorda che è impossibile raccontare una storia senza che un elemento eccezionale deformi le vite normali di persone normali.
Perché?
Perché l’eccezionale è il motore che muove le storie, i racconti, le narrazioni.
Se Frodo non avesse mai ricevuto l’anello, distogliendolo dalla sua normalissima vita da Hobbit nella Contea, avremmo avuto Il Signore degli Anelli? Se Harry non avesse mai saputo di essere un mago, continuando la sua normalissima vita da studente in una scuola dell’infanzia inglese e finendo in situazioni di disagio giovanile (una baby gang) vista l’incuria a cui lo sottoponevano gli zii, avremmo avuto la saga di Harry Potter? E proprio mentre le vite di Frodo ed Harry continuavano in maniera tutto sommato normale, due barbuti canuti si catapultano nelle esistenze recando notizie eccezionali, e tutto cambia.
Dal giorno in cui scopri che l’anello del potere, il più potente tra tutti i gingilli magici, è tuo, o dal giorno in cui scopri di essere un mago (!!!) nulla può essere più come prima.
Chissà se Frodo, avendo in mano un cellulare con Instagram o Facebook installati, avrebbe mandato storie a tutti gli Hobbit della Contea dal suo viaggio incredibile nella Terra di Mezzo.
In questa puntata di A cosa penso quando corro? indaghiamo proprio l’eccezionale nelle nostre vite normali:
La ricerca dell’eccezionalità che ci fa sfuggire dall’ordinario governa le nostre vite?
In un mondo social dove tutto è eccezionale, c’è qualcosa di ancora eccezionale?
Dove esiste l’essere umano esiste il racconto: dove esiste il racconto esiste l’eccezionale
Se così su due piedi mi dovessero chiedere qual è la caratteristica in assoluto più peculiare dell’essere umano, direi il racconto.
La benedizione-maledizione della nostra intelligenza sopraffina, di quell’unicum straordinario nel mondo animale che è il nostro cervello ci ha portato nel corso del tempo a sviluppare l’antidoto del racconto per spiegare il perché del mondo, il perché della nostra esistenza stessa e il perché la nostra esistenza, tra tante, sia stata baciata dal miracolo di questo intelletto sconfinato.
Attraverso le storie siamo stati in grado di costruire la nostra visione tutta umana dell’universale. Siamo stati in grado di educare e insegnare: ognuno a modo suo. Da una parte c’erano le favole di Esopo, ad esempio, che si chiudevano sempre con la morale, introdotta dalla frasetta formulare la favola insegna che… (o mythos deloi oti… in greco antico). Dall’altra i racconti delle religioni del libro, con il loro sapere universale, esclusivo, settario.
Attraverso i racconti siamo stati addirittura in grado di spiegarci l’evento non-eccezionale per eccellenza, la morte - l’unica certezza nelle nostre vite al di là del fatto che siamo nati. Abbiamo dato una dimensione alla gioia, ci siamo avvicinati all’esperienza umana di donne e uomini lontanissimi - a cui ci siamo sentiti legati dalle parole di racconti e narrazioni straordinarie.
Anatomia del racconto
Abbiamo visto da dove nasce l’esigenza di raccontare.
Se dovessimo trovare alcuni tratti comuni alle narrazioni, diremmo che il racconto nasce nel momento in cui a partire da una situazione di stallo iniziale succede qualcosa di straordinario, eccezionale.
Questo qualcosa culmina in un surplus di azione - qualcosa dovrà succedere nel racconto - e dopo che il fatto si consuma, si ristabilisce una nuova situazione di stallo, un new normal.
Il racconto è una specie di incrinatura nello spazio-tempo particolare di una persona, di un gruppo di persone, di un popolo: questa incrinatura è lo straordinario che un giorno cambia le nostre vite.
Raccontare a qualcuno: oggi sono andato a fare la spesa, ho trovato cetrioli, insalata, pomodori e zucchine. Ho pagato, sono uscito, ho caricato le cose in macchina, ho messo in moto e sono tornato a casa è diverso da raccontare a qualcuno oggi sono andato a fare la spesa, ho trovato cetrioli, insalata, pomodori e zucchine. Ho pagato, sono uscito e quando sono tornato alla macchina ho visto Hagrid, che mi ha detto: “tu sei un mago”.
Udendo la prima storia, la risposta più probabile sarà sticazzi (ma poi perché mai qualcuno dovrebbe raccontare qualcosa di simile); udendo la seconda storia non so voi, ma io due domande per la persona che si trova davanti Hagrid al parcheggio del supermercato le avrei.
Insomma: come noi respiriamo ossigeno, il racconto per vivere ha bisogno primario di un nucleo di eccezionalità da cui propagarsi.
Le nuove forme dell’autobiografia
Ci stiamo avvicinando al punto della questione.
Da quando mi interesso nel cercare di capire cosa ci attira in mezzi come i social network, ho finito per darmi tante risposte diverse: ci piacciono le piattaforme social perché, in fondo, siamo tutti un branco di insaziabili voyeur? Ci piacciono perché sono la strada più veloce per raggiungere i quindici minuti di notorietà? Ci piacciono perché sono l’arena dove dare sfoggio alla nostra supremazia di qualche tipo? O è solo una questione di dopamina?
Nessuna risposta è sbagliata - e ogni risposta considera momenti diversi della nostra fruizione delle piattaforme (guardare gli le vite degli altri, usare attivamente le piattaforme).
Ma voglio andare oltre.
Se è vero che l’essere umano è l’animale che racconta storie, credo che l’adozione di massa del social sia da indagare con un occhio critico verso questo tratto della nostra natura, in particolare nel momento in cui - riprendendo la definizione di autobiografia di Lejeune - mettiamo l’accento sulla nostra vita individuale, in particolare sulla storia della nostra personalità (matricole in Lettere a Bologna 2015-2016 so che vi è scesa una lacrimuccia).
Facebook, Instagram, YouTube, Twitter, la stessa TikTok sono non solo la strada più facile con cui la stragrande maggioranza delle persone riesce a raccontare la propria vita: sono anche l’unica via con cui tantissime persone possono testimoniare la propria vita nella propria unicità ed eccezionalità.
Perché non tutti gli esseri umani sanno, vogliono, hanno la possibilità di esprimersi attraverso le arti visive, figurative, la musica, la scrittura (e tante altre forme di espressione).
E allora scattare e pubblicare è il modo più rapido ed economico di attestare una presenza, di gridare l’eccezionalità delle nostre vite alla nostra cerchia di contatti, che è il nostro mondo. Anche io sono eccezionale, e la storia su Instagram è uno spazio per raccontare un frammento della mia personalità.
Ma come avviene il racconto delle nostre vite in un mondo drogato di eccezionalità? Quanto eccezionali dobbiamo essere per far sì che la nostra storia sia quella più memorabile e di impatto? Che la nostra personalità sia quella che lascia il segno?
Quando tutto è eccezionale, nulla è più eccezionale
Ve lo ricordate Syndrome degli Incredibili?
Il bambinetto che ammorbando Mr. Incredibile si è fatto prendere a male parole dallo stesso, scatenando per reazione la creazione di un super cattivo. I super cattivi, rielaborando traumi, spesso diventano super saggi e lungimiranti. E Syndrome, in un momento di lucidità, raccontato il suo piano malvagio si lascia sfuggire queste iconiche parole (qui il video):
quando tutti saranno super, nessuno lo sarà più.
Ultimamente quando mi capita di bazzicare sui social mi sembra di vivere la stessa allucinazione di Syndrome.Generiamo contenuti, una quantità straordinaria di contenuti straordinari (in certi casi di ottima qualità), che in gran parte servono a qualificare la nostra vita come… straordinaria.
E in un universo in cui tutti sono eccezionali e vivono momenti e situazioni straordinarie… cosa c’è di veramente straordinario ed eccezionale?
Il racconto autobiografico che emerge dal social network è non tanto quello di esseri umani a cui va sempre tutto bene: ma di persone che fanno, vivono, respirano cose e atmosfere eccezionali, anche in negativo. Ricordate? L’eccezionale è il motore della narrazione, ciò che fa sì che una storia valga la pena di essere raccontata. Qual è l’interesse, ad esempio, nel raccontare la più ricorrente e routinaria azione della propria giornata? (Come fare la spesa senza incontrare Hagrid, ad esempio).
La banalità di ogni cosa condivisa sul diario digitale della nostra vita prende le forme della deviazione rispetto alla normalità, e urla: “ehi, ci sono anche io!”.
Nei panni di una persona a cui la giornata sta andando storta sorbirsi le vite non dirò perfette, ma straordinarie, di tutti gli esseri umani sul globo - i sei gradi di separazione che sono l’umanità sono racchiusi entro i pixel dello schermo del proprio cellulare - può essere una mazzata. Una tortura.
E il dialogo interiore potrebbe essere questo: Lì sullo schermo, tutto è colorato e appetitoso - nel bene e nel male: non esiste la routine, tutto è straordinario e quindi degno di essere vissuto e raccontato, a differenza dell’eterno ritorno a cui io sono sottoposto.
A me è capitato, in certi momenti di questa calda estate: sfido qualcuno a dire che non gli sia mai successo di mettere a confronto la propria vita tutto sommato piatta e monotona con i momenti vissuti da persone di cui sappiamo nulla.
La storia più antica del mondo che si ripete: la nostra felicità non è felice come quella degli altri.
Sullo schermo sembra che abbiamo tutti vite eccezionali. E svalutiamo la straordinaria unicità delle nostre vite a favore di uno sguardo di invidia totalmente irrealistico e infondato sulle esistenze altrui.
Le allucinazioni da eccezionalità
Ma l’eccezionalità resta, per natura, un’eccezione. E nessuna patente di vita straordinaria conferita dall’esposizione al pubblico togliera alle esistenze degli elementi di ricorrente, routinaria, dozzinale, noiosa… normalità.
E allora come si combattono queste allucinazioni da eccezionalità, questi momenti di sconforto in cui tutto ci sembra bello e degno di essere vissuto ad eccezione della nostra vita?
Ho stillato una lista non esaustiva di due elementi. Spero di rimpolpare la lista, in futuro, per renderla più esaustiva e più utile.
Intanto, pensa a queste cose quando ti senti sconfortato dall’eccezionalità della vita degli altri.
Tutti hanno la tua stessa, identica, precisa, vita noiosa al di là dello schermo. Tutti. Magari qualcuno ha noie in forme diverse dalle tue. Ma tutti, nessuno escluso, si annoiano quanto te quando devono pulire casa, fare la spesa, andare alla posta o fare la fila dal dottore.
Per chiudere con Kurt Vonnegut, uno degli autori di fantascienza che più amo: Quando siete felici, fateci caso. Anche se state caricando la spesa in macchina e non trovate Hagrid che vi dice che siete maghi.