Cos'è questa storia che si può pagare per partire davanti?
La nuova strana moda dei pacchetti VIP in alcune gare podistiche
Buongiorno a tutte e tutti!
Bentornati su A Cosa Penso Quando Corro?, una newsletter che ama le mezze stagioni.
La solita presentazione di questa newsletter: A Cosa Penso Quando Corro? è uno spazio in cui si parla di running, come sport da guardare, come sport da praticare; come fatto sociale, economico, culturale e introspettivo.
E che esce ogni due domeniche alle 10 del mattino.
Per recuperare le puntate precedenti potete consultare l’archivio di ACPQC?

Sul limitare di aprile, a metà della prima metà dell’anno - o con un quarto di anno alle spalle - approfitto del breve sospiro di pausa tra la ricchissima stagione indoor e la stagione outdoor (che si slancerà almeno fino alle prime settimane di novembre) per riprendere fiato. Le mie ultime settimane sono state intense, tanto per la mente quanto per il corpo: alla scrittura di una newsletter che si chiama A cosa penso quando corro? accompagno, nei fatti, una pratica sportiva relativamente assidua. Un paio di volte all’anno la corsa esce dall’orticello tranquillo della corsa come pratica di igiene mentale quotidiana: metto il vestito buono e mi butto in qualche gara, accuratamente selezionata. Personalmente, sono un grande fan delle gare vicino a casa: voglio dire, perché no? Le manifestazioni sportive sono momenti importanti per la socialità, zone franche in cui deporre le armi e fare comunella, cittadini e istituzioni in tiro, a decantare la bellezza dei luoghi e la fortuna di poterli vivere nel quotidiano - quando il passo ritmato dei runner cessa e i clacson tornano a saturare l’aria lattiginosa delle ora di punta, tutta smog e manovre azzardate nel traffico. Da lunedì (facciamo da martedì, dopo la sbornia post evento) possiamo tornare a mandarci tutti a fanculo a vicenda, come sempre.
Lo scorso weekend, per me che sono un milanese trapiantato, è toccato alla Stramilano, alla quale mi sono approcciato dopo un periodo di preparazione più intenso che meticoloso: gli strascichi di una serie di pericolosi acciacchi al sistema immunitario che mi sono procurato nelle ultime settimane si sono trascinati a lungo, spalleggiati dalle insidie dell’influenza, con il risultato che alla gara ci sono arrivato con qualche ruggine di troppo.
Ma non voglio parlare troppo della mia gara (se proprio morite dalla voglia di sapere com’è andata trovate tutto sul mio profilo Strava, il link è in fondo all’episodio): restituirò giusto un paio di tratti che possano fare da fondale scenografico a tutta la storia. Intanto, tra la mezza maratona, la 10k e la 5k (non competitive) Stramilano è stata in grado di radunare circa cinquantamila persone. Siamo di fronte a un evento sportivo mastodontico, a tutti gli effetti, con numeri assoluti vicini a quelli delle più grandi gare al mondo - che però fanno queste cifre attorno a un’unica distanza, generalmente la maratona. Poi, un tratto meteorologico: il 23 marzo 2025 a Milano ha piovuto più o meno tutto il giorno, gara compresa. Le strade erano stagni, le canaline dei tram rivoli, il pavé una trappola. Per fortuna, almeno intorno a me, nello zigzag letale dei primi congestionati chilometri nessuno si è fatto male.
Dicevo, non voglio parlare della gara in sé. Piuttosto, vorrei spendere un paio di parole su qualcosa di collaterale, un dettaglio che ho notato ben prima dello start, durante il processo di iscrizione. Quando mi sono collegato al sito di Stramilano per effettuare la mia iscrizione l’occhio mi è caduto su qualcosa di relativamente nuovo, qualcosa che avevo visto solo in occasione di un’altra gara milanese a cui ho partecipato lo scorso novembre, la Milano 21k. Oltre alla possibilità di segnarsi alla Stramilano attraverso una quota di iscrizione normale - che garantisce, cioè, tutto quello che vi aspettereste di trovare in una gara di corsa (ristori, punti di assistenza medica lungo il percorso, medaglia, maglietta, servizi igienici alla partenza, ecc.) - per chi volesse esiste una quota di iscrizione speciale, grazie alla quale l’iscritto si accaparra una serie di vantaggi esclusivi. Che nome poteva avere questo piatto ricco se non pacchetto VIP? Posso dire che questa cosa già solo a sentire il nome mi sta sui coglioni o spoilerò l’intero sentiment polemico della puntata? Vabbè, ormai è troppo tardi.
Incuriosito, ho provato a dare un’occhiata a cosa comprendesse questa quota VIP. Accesso prioritario al ritiro pettorale (operazione da cinque minuti il giorno prima della gara, alle tre del pomeriggio; il grosso della ressa, compreso qualche membro delle forze dell’ordine presente in piazza Duomo, era accalcato all’espositore che offriva il caffè gratis); accesso prioritario al deposito borse (procedura gestita in maniera eccellente, ordinata e tempestiva dai volontari della Croce Rossa). Va bene, fino a qui l’idea del sovrapprezzo mi va giù senza troppi problemi: non-fare-la-fila è pur sempre una leva di marketing abbastanza rodata e già sdoganata in diversi ambiti della vita, dagli aeroporti ai luna park. D’altronde, il tempo è relativo e magari risparmiare anche solo quei cinque minuti di fila ai vari punti di ritiro è una prerogativa indispensabile per qualcuno che se lo possa permettere - o che abbia, che so, i minuti contati per qualsiasi motivo. Ecco, non sono troppo infastidito neanche dal fatto che con il pacchetto VIP i fortunati ottengano il portachiavi dell’evento. Giuro, non sto inventando nulla.
Piuttosto, mi sta decisamente più sulle palle il fatto che i VIP abbiano il bagno (chimico) privato. E che questo bagno privato sia totalmente inutilizzato, a fronte della rituale fila chilometrica dei podisti e delle podiste normali in fila sotto la pioggia della grigia mattina milanese. Un po’ di tempo fa, ricordo di aver visto questo video in cui un noto critico d’arte e politico italiano si lamentava della discriminazione tra pisciatori di serie A e pisciatori di Serie B sui voli di una compagnia aerea (credo svizzera). Il fulcro dell’invettiva era che i passeggeri seduti in quarta fila, appena oltre le prime tre file di “prima classe“ non potevano andare nel bagno in testa al velivolo seppur esso rimanesse completamente inutilizzato per ampie porzioni di volo visto l’esiguo numero materiale di viaggiatori a cui il seggio privilegiato era destinato. Ecco, confesso che in questa situazione ho vissuto lo stesso dramma.
Ma la ciliegina sulla torta dei benefit del pacchetto VIP è un’altra. Mi rincresce dire che i toni devono farsi decisamente più seri, anzi, è proprio il caso di passare a un certo contegno. A Stramilano 2025, se paghi ti conquisti il diritto di partire nella prima griglia, insieme ai top runner. Quando l’ho letto ho fatto quasi fatica a crederci. E quindi, alla fine, anche qua basta pagare? La passione per il running è a malapena uscita dai bordi della nicchia per allargarsi a una platea più ampia di amatori e cominciamo già a passare questo messaggio a chi si approccia al mondo delle gare di corsa su strada? Io pensavo che esistesse una deontologia del runner, basata sul concetto basilare e fondamentale che il diritto a partire da una certa griglia ce lo si debba guadagnare sul campo, e non possa essere acquistato in un pacchetto VIP; men che meno il diritto a partire con professionisti, semi-élite e amatori avanzati - che saranno felicissimi di dividere la griglia di partenza con tapascioni che si sono comprati il posto coi loro quattrini (no, seriamente, questo è anche abbastanza pericoloso, e voglio sperare che ci sia stata una gestione oculata di questo blocco di runner trapiantati, sempre che qualcuno abbia acquistato questo fantomatico pacchetto).
Eventi in grado di attirare cinquantamila persone hanno bisogno di questa roba? Per cosa? Per tirare su quanti soldi? Una goccia nell’oceano, relativamente a introiti elevatissimi. Pur ammettendo che il pacchetto VIP sia un prodotto pubblicizzabile, e con una nicchia di mercato all’interno del macro-pubblico dei podisti: c’è veramente bisogno di questi pacchetti VIP? A livello simbolico che messaggio si sta mandando?
La bozza embrionale di questo pezzo l’avevo intitolata: Ma davvero i milanesi sono così scemi? Il nocciolo della questione non sta nel puntare il dito contro i podisti, quanto contro chi queste idee le partorisce e le propone. Certo, è vero che solo a Milano - almeno per quello che riguarda l’Italia - ho visto questo tipo di offerte tutto sommato insensate nella concretezza dei fatti (al di là dell’odiosa questione della posizione di partenza, il ritorno per il runner VIP non mi sembra irresistibile, ma sono pronto a essere smentito). Sarà perché Milano è il punto di contatto più naturale con tutto il meglio e il peggio che arriva dal resto del mondo, e quello che succede a Milano anticipa di qualche anno ciò che andrà a propagarsi in Italia. Oppure, sotto sotto, sarà perché ai solopreneurs, ai bellimbusti, e ai content creator dei brunch sovra prezzati piace pagare di più così, tanto per.
Cosa ho imparato da tutta questa storia? Che messaggio voglio mandare? Non lo so. Mi auguro solo di non essere così giovane da non aver mai visto un concerto senza l’infamissima maggiorazione del Pit per stare nell’area transennata delle prime file e di non essere così vecchio da essere già arrivato al punto di non ritorno in cui a selezionare per noi la griglia di partenza per una gara di corsa sarà il nostro portafoglio.
Letture, ascolti e riflessioni
La running culture fa schifo?
È stata una puntata relativamente light. Ci aspetta un 2025 intenso, a partire dalla prossima puntata, dove l’esperimento Grand Slam Track avrà finalmente preso il via (si parte il weekend del 4-6 aprile a Kingston, in Giamaica).
Intanto, voglio linkarvi questa puntata del podcast The Culture Study:
Il protagonista della puntata è Raziq Rauf, un giornalista basato a Los Angeles che scrive di running in una newsletter che si chiama Running Sucks. Tra lo small talk e i discorsi un pochino più generalisti sulla corsa, in questo episodio del podcast vengono sollevati alcuni temi interessanti riguardo alla running culture. Ad esempio: perché i runner amatori sono quasi sempre evangelisti convinti del proprio sport?
Già, perché? Ne emerge un quadro sfaccettato: orgoglio, passione, convinzione da un lato; comportamenti borderline da un altro. I running club sono i luoghi dove la passione per il nostro sport monta, e dove si nasconde l’opportunità maggiore per il running come sport di uscire dalla nicchia per imporsi nel mainstream. Circolano idee, si diffondono tra i membri i segni che fondano le comunità. Il movimento si solidifica e si rafforza, esce nelle strade. E questo indipendentemente dai tanti podisti (me incluso) che ai gruppi dei running club preferiscono un approccio più riparato alla corsa: solitario a tutti gli effetti. Non necessariamente perché siamo stronzi e cattivi, e non vogliamo parlare con nessuno, ma semplicemente perché siamo fatti così. Insieme a questa grande ed eccitante opportunità, però, nei running club si nasconde anche il germe della maniera in cui fare le cose: i discorsi su cosa è conveniente o sconveniente fare, le mode e i trend da seguire si fossilizzano attorno all’immaginario che si crea tra i podisti. Le distanze che bisogna prediligere per essere ritenuto parte del consesso, ad esempio: con la maratona che sta cominciando a diventare, lentamente, il golden standard su cui misurare il proprio grado di appartenenza alla comunità - a tratti in senso morboso.
Qui sorge un altro problema, più concettoso ma forse non meno importante: nel futuro i podisti come parleranno di loro stessi, della loro pratica del running e della loro passione per lo sport? Quello del linguaggio con cui raccontare uno sport come la corsa, specie quella su lunga distanza - da sempre utilizzata come similitudine e metafora di resistenza nel linguaggio comune - è un tema meno scontato di quanto sembri, ed è bene cominciare a ragionarci. A maggior ragione per il fatto che da oltreoceano la corsa è sempre più strettamente incentrata attorno a una dimensione performativa, legata a doppio filo con il totale travisamento dello stoicismo letto attraverso la lente della produttività estrema.
Ancora, sono temi interessanti, su cui non si è ancora riflettuto abbastanza (forse perché non c’è stato il tempo materiale per farlo). Anche di questo proverò a discutere nelle prossime settimane, compatibilmente con la ricchezza di calendari sportivi che ci daranno tanto materiale di cui parlare.
Enhanced Games: le olimpiadi del doping
Un tema sempre caldo che anche di recente è tornato su ACPQC? è quello del doping. Ho appena finito di leggere un classico sul tema, The Secret Race di Tyler Hamilton, ciclista di punta di quel periodo di irrefrenabile delirio che sono stati gli anni Duemila. Hamilton ha corso prima con Armstrong, nel Postal Team che ha portato l’americano alla vittoria dei suoi primi Tour de France. Poi, dopo la rottura sportiva con Armostrong, si è messo in team più o meno competitivi, in una fase di carriera caratterizzata da tanta sfortuna - in particolare al Tour del 2003, al quale arriva in palla, e che invece comincia con una frattura alla clavicola alla prima tappa; senza desistere finisce quarto, arrivando a vincere una tappa di quel giro - ma anche da acuti come l’oro olimpico ad Atene 2004 (medaglia poi revocata dal CIO).
The Secret Race è un libro finito di scrivere nel 2012, nei mesi che precedono la famosa intervista in cui Lance Armstrong confessa a Oprah Winfrey l’utilizzo di doping durante la propria carriera (a fronte di uno strenuo rigetto di tutte le accuse nel passato). Quella di Hamilton è una confessione con pochi filtri riguardo a quello che succede nel mondo del ciclismo professionistico. Hamilton non nega la gravità di quanto ha commesso nel corso della sua carriera. La morale del libro non è tanto un rimprovero a sé stesso, né tanto meno un’auto indulgenza, quanto una sorta di appello: sì, il doping è sbagliato, ma lo sbaglio dell’atleta dopati non può essere uno stigma indelebile per l’essere umano che l’ha commesso, né un giudizio totalizzante in negativo sullo stesso. C’è una scala di grigi che abbiamo sempre fatto finta di non vedere.
Se è vero che ci sono uomini e donne dietro gli atleti (siamo sempre pronti a difendere e a romanticizzare la caducità dei nostri eroi davanti agli sbagli di campo) c’è bisogno che l’opinione pubblica maturi in tema di seconde possibilità nei confronti degli atleti che hanno fatto uso di doping per una parte della propria carriera. Alcuni casi recenti ci dimostrano che un’inversione di rotta su questo tema è tutt’altro che semplice - guardare il trattamento ambiguo riservato a Sinner da ampie porzioni di stampa sportiva e da una parte dei suoi colleghi. Esiste sempre un contesto ampio fatto di circostanze variegate entro cui certe azioni individuali possono essere inserite: vale per Hamilton, vale per gli atleti kenyani di cui abbiamo tanto parlato negli scorsi mesi. Lungi dal promuovere o avallare questi comportamenti, il minimo che possiamo fare è ascoltare le ragioni, cercare di comprendere; poi, nel caso, passare all’azione (che sia attraverso l’educazione o attraverso le punizioni). Il monito di Marc Bloch sul metodo storiografico tout court deve restare vivo anche per la storiografia sportiva: comprendere, non giudicare. Che a giudicare, poi, ci dovrebbero pensare gli organi deputati (all’interno di un sistema lacunoso e opaco; ma qui si aprirebbe un’altra lunga digressione, che non credo di essere in grado di sostenere con troppa lucidità).
Gli stessi, delicati temi sono portati avanti in un libro di recentissima pubblicazione e che sto leggendo in questo periodo: Doping. Una storia di sport, di April Henning e Paul Dimeo per i tipi di «66thand2nd» (non l’ho ancora finito).
Il discorso del doping è affrontato con metodo diverso e inedito da un imprenditore di nome Aron D’Souza, presidente degli Enhanced Games: un’alternativa al CIO e ai Giochi Olimpici in cui il doping è non solo permesso, ma il cui utilizzo è favorito per scopi quasi scientifici. Degli Enhanced Games - che hanno in Trump jr. e nel comitato olimpico russo estromesso dalle competizioni internazionali i loro più illustri mecenati e sostenitori - aveva parlato nel 2024 Dario Saltari in un lungo articolo su Ultimo Uomo. Una fonte più recente e di primissima mano è quella fornita da Giovanni Armanini di Fubolitix, che ha intervistato D’Souza.
L’intervista integrale è qui. Le riflessioni sempre interessanti e centrate di Giovanni, invece, sono in questo articolo di Fubolitix del 15 marzo, dal titolo eloquente: C'è una "Superlega" che sfida le Olimpiadi.
Vi lascio qui queste riflessioni, nella speranza di poterle riprendere a breve in una trattazione più completa.
Intanto, per questa domenica è tutto. Ci sentiamo domenica 13 aprile per parlare di Grand Slam Track. Potete recuperare una breve introduzione sul tema in questa puntata di gennaio 2025.
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Mi hai incuriosito e sono andato a controllare sul sito della mia prossima maratona (Ginevra). Lì lo chiamano Pack Premium e fra i vari servizi compresi nell'offerta c'è anche la "collation d’avant course proche de la ligne de départ" . Penso non serva la traduzione ...
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Come distruggere a passione.