Una settimana in Romagna (un anno dopo)
Corse caldissime nei luoghi dell'alluvione - un fotoracconto
Buongiorno e buona domenica!
Vi ho mentito. Questa settimana sarebbe dovuto uscire il quarto episodio di Storie di Corsa. Una settimana di mal di gola, raffreddore e soprattutto tosse mi hanno rovinato i piani.
L’episodio è in cantiere, ben avviato e dovrebbe uscire la prossima settimana - prendete le mie promesse per quello che sono, chiaro.
Il nostro «multicolore universo di storie»
Sono passati circa 365 giorni dall’alluvione in Romagna. Per la verità, il pacchetto completo fu somministrato in due tranche: di cui la più consistente arrivò a metà maggio. Come - credo - tante e tanti cui è toccato in sorte vivere questo evento, ricordo tutto di quei giorni. Le telefonate a casa, il refresh compulsivo di X, le notizie che si inseguivano: questa è vera, questa è vera, questa è fake. Quietatasi la pioggia e rispuntato un sole caldissimo, il sabato mattina stipi l’utilitaria di amici e di pale da neve - che finalmente, dopo anni negli scantinati senza aver mai visto un fiocco sentono la dignità di riscattare il loro prezzo - e ti avvii senza una meta precisa, dove sai che c’è bisogno. La domenica ricomincia il giro.
A proposito di giri, il tour che ci siamo fatti più o meno tutti in quel periodo è quello al centro vaccinazioni: il Clostridium tetani si beava nella sua foggia da pellet - o almeno così lo fanno vedere in grafica - mentre ci vedeva tuffare le mani nelle distese di fango. E allora, per togliergli la risata, vai a tirare fuori lo storico delle vaccinazioni e scopri che l’ultima volta che hai fatto la vaccinazione ancora doveva esplodere la bolla immobiliare.
Sotto allo strato mediatico delle passerelle dei politici con gli stivali, delle promesse paracule e degli armiamoci e (ri)pulite, il fango dell’alluvione ha fatto riemergere due cose, molto strettamente collegate :
Il fatto che nessuno (“e soprattutto sti cazzo di giovani”) crede più in niente, che c’è la morte dei valori e bla bla bla è una fesseria: una canzonetta da due lire che a qualcuno fa evidentemente comodo cantare e suonare. Fa bene ricordarlo il più possibile - e ultimamente sto cercando di fare del mio meglio per farlo presente spesso.
Se c’è una cosa di cui la mia generazione e quella immediatamente successiva ha un grande bisogno sono grandi storie di cui sentirsi protagoniste senza etichette, senza che qualcuno ci faccia sentire comprimari solo perché siamo giovani e agiamo dal basso, fuori dai perimetri consentiti. Ci servono storie da raccontare, e nelle quali raccontarci come eroi positivi. L’alluvione è stata una delle nostre storie da raccontare.
Questo prurito, questa voglia di raccontare storie è un’idea che Calvino ha espresso quando rifletteva sulla necessità di costruire la letteratura della Resistenza. Ci si muoveva in un «multicolore universo di storie»: ognuno aveva la propria storia e ognuno aveva il diritto di raccontarla, a modo proprio.
È successa più o meno la stessa cosa con l’alluvione. Nessuno, e ripeto nessuno avrebbe voluto passare la giornata in mezzo al fango (serve dirlo?), ma è successo: come diceva Gandalf:
Anch’io [non avrei voluto fosse accaduto] come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato.
Per una volta abbiamo avuto il pallino del gioco in mano; e per quanto ci siano stati tentativi di ridurre tutto a qualche immagine pittoresca di un fenomeno strano in cui questi strani esseri umani di età compresa tra i 15 e 30 anni fanno qualcosa di utile (!!), ne siamo usciti con una credibilità diversa e, credo, con una maggiore fiducia nei confronti gli uni delle altre. Roba spaventosa.
Ritorno sui luoghi (di corsa)
Nello scrivere il pezzo stavo riguardando le foto che ha scattato il mio amico Francesco Marasco - @francescopiomarasco.
Alcune le ha scattate in un pomeriggio che abbiamo passato insieme a Forlì, zona Cava; l’area che bazzicavo quando ero liceale e musicista, perché c’era Dragon Music, con la sua fila di Stratocaster una dietro l’altra - un guilty pleasure guardare senza poter comprare quella sfilza di strumenti meravigliosi.
Altre foto le ha scattate più vicino a casa, nel comune di Ravenna. Questa settimana sono andato a rintracciare alcuni dei luoghi immortalati: ovviamente, di corsa.
Il fiume Ronco passa a tre chilometri precisi dalla porta di casa: lo so perché la corsa sull’argine è uno dei grandi classici delle mie uscite settimanali. Amiche e amici runner, soprattutto di città: immaginate queste strade di campagna ben asfaltate - o piacevolmente bianche - ricoperte di ghiaino bianchissimo, drittissime e sulle quali le possibilità di incontrare un auto, o anche solo una bici sono bassissime. Bello vero?
Non ho mai trovato discrepanze né tra il Garmin né tra il Coros in merito alla distanza tra i due punti - quindi sì, è scientificamente provato che tra casa e l’argine ci siano tre chilometri. Una volta raggiunto, lo percorro verso Ravenna, lungo uno stradello ricoperto da uno strato di asfalto bianco.
Di fianco, distese di campi: il ricordo della centuriazione romana è nella partizione ritmicamente dettata dai fossi, o nei filari di pini che delimitano viali e proprietà. Questi alberi (per fortuna) sono sempre uguali: li ho visti in tutte le stagioni, a più o meno tutte le ore del giorno, dal crepuscolo alle prime ore dell’alba. Sono le mie cinque, venti, cento Cattedrali di Rouen. Se chiudo gli occhi saprei descriverli perfettamente - così come saprei richiamare ogni dettaglio del paesaggio che li circonda lungo il percorso delle acque.
Quando il Ronco è esondato, il fango si è fermato a un centinaio di metri da casa; a circa un chilometro di distanza, invece, le strade cominciavano a essere completamente inagibili. Lo sono state per un paio di giorni: poi i fossi hanno lentamente ritrovato la capacità di drenare l’acqua.
La corsa verso il fiume
Vado in direzione del fiume, uscendo di casa a metà giornata: decido di proseguire la mia tradizione giornaliera di brevi corse all’ora di pranzo, anche se il caldo picchia sempre più forte. Maggio è esploso: improvvisamente. Scopro le braccia, metto la crema solare - appena la fronte si imperla di sudore, questo mi scende negli occhi e mi brucia da matti; comincio a lacrimare e a pulirmi la faccia con un lembo della maglietta. Un male atroce.
Proseguo. A un chilometro e mezzo di distanza da casa, comincio a ritrovare alcuni punti interessati dagli effetti infausti dell’alluvione. I ponti sul più grosso dei fossi che intersecano la strada sono stati transennati come misura preventiva di sicurezza; un paio di passaggi sono crollati al passaggio dell’abnorme flusso d’acqua - decisamente fuori portata per gli alvei dei fossi e dei canali di scolo che rigano questi campi. Le strade sono state riaperte dopo un paio di mesi; ancora le transenne non sono state portate via, e restano ammassate a bordo strada.
Gli stradelli sterrati che conducono tra i campi hanno smesso di esistere per qualche giorno: poi, piano piano, eccoli riapparire. Siamo stati fortunati: il deflusso delle acque è avvenuto con rapidità sufficiente da evitare stagnazioni che avrebbero potuto portare a vere e proprie epidemie - la situazione non è stata così fortunata in altri punti di Romagna.
Per la mia corsa di ricognizione nei luoghi delle foto che avete visto sopra mi sono allontanato di un chilometro e mezzo da casa. Fa strano pensarci. Siamo stati fortunati a essere colpiti con minore intensità, e a non avere perso niente - a differenza di quanto non sia accaduto a chi aveva la propria casa, o la propria attività nei luoghi immortalati dai due post che ho messo poco sopra.
Conclusione: raccontare perché
Mentre scrivo, in due punti del mondo molto lontani si stanno consumando due tragedie umane unite a filo diretto con l’alluvione in Romagna.
Kenya e Brasile: due paesi intimamente legati al running e ad alcune delle storie che ho raccontato su A cosa penso quando corro? e su Storie di Corsa. Penso alle imprese dei grandi atleti keniani - Kipchoge, Kiptum, Obiri - e alla vicenda di Vanderlei De Lima (raccontata qui).
La regione di Rio Grande do Sul e la città di Porto Alegre sono state inondate per l’80% della propria superficie: più di cento morti, un numero altissimo di dispersi, città senza elettricità, un deflusso delle acque complesso, che rischia di favorire l’insorgere di malattie.
La situazione è ugualmente catastrofica in Kenya (ma non solo: episodi gravissimi si sono verificati lungo tutta la costa orientale dell’Africa). Nella regione attorno a Nairobi si contano oltre 250 vittime e 200.000 sfollati; anche qui, le lacune nei sistemi di deflusso delle acque minacciano l’insorgenza di malaria e colera. Le baraccopoli sono state spazzate via dall’acqua dopo la rottura di una diga:
«Nyumba bado iko?», in swahili – lingua parlata in Kenya e in altri Paesi dall’Africa orientale – è un modo per chiedere se la propria casa esiste ancora.1
In tutto questo: aprile 2024 è stato il mese di aprile più caldo di sempre - ne parla
nell’ultimo episodio.Non sono l’esperto che cercate per parlarvi di fenomeni complessi: cerco solo di portare il mio contributo ad accrescere consapevolezza sull’esistenza di queste problematiche, e lo faccio con quello che ho a disposizione: la mia propensione alla narrazione.
Se il ricordo e il racconto sono la forma di resistenza che ci è data in sorte, mai come ora è il momento di smettere di raccontare e ricordare.
Letture e Fonti
Innanzitutto andate a seguire il profilo Instagram di Francesco Pio Marasco, che sta diventando un fotografo sempre più raffinato e sensibile. Qui pubblica le foto dei suoi viaggi incredibili, sempre riccamente commentate.
Vi rimando a
, dove Nicola e Federica fanno un lavoro prezioso nel cercare di spiegare in maniera semplice, ma corretta, la complessità di quello che succede sul nostro pianeta bello e fragile.A proposito. Questo articolo prezioso di Il Colore Verde, di qualche anno fa, prende in mezzo i temi di questa puntata: il rapporto tra la fotografia e la narrazione della crisi climatica. Lo leggi qui.
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