Un paio di cose che ho imparato correndo
Riflessioni a cuore aperto sul mio rapporto con la corsa
La scorsa settimana, l’ultima domenica di settembre, mi sono ritrovato nella (per me) inedita situazione di correre un trail. Per i non addetti ai lavori, un trail è una gara di corsa in mezzo alla natura, su strade sterrate, rocce, terra; in mezzo a boschi, su tratti più o meno esposti, su piste che consentono il passaggio di massimo una persona.
Una situazione quanto più diversa possibile dal correre sull’asfalto, in pianura (tra Milano e Ravenna le salite sono decisamente sparute), a cui in due anni di assidua frequentazione mi sono abituato, e a cui ho quasi cominciato a dare del tu.
Sbagliando: non si dà del tu all’asfalto. Perché l’asfalto è una superficie difficile, da prendere con cautela, da approcciare con attenzione. L’asfalto dà tanto, soprattutto in termini di velocità: allo stesso tempo è una superficie che prende tanto. Un passo sbagliato, un tallone che batte con troppa forza e addio ginocchio, caviglia, anca. E dopo troppi allenamenti sull’asfalto, il mio corpo a volte mi sembra scomposto. Un po’ come in una partita di shanghai. Mi sento un Picasso completamente destrutturato, una caviglia di là, un bicipite femorale di qua, il collo da un’altra parte - ma da quando in qua il collo serve per correre?
Ma non divaghiamo, e torniamo al trail.
Com’è stata la mia prima gara di trail? Mi sono divertito a correre tra i boschi? Gli sterrati, a cui ho religiosamente dato del lei, misurando ogni passo con dovizia e millimetrica precisione, cosa mi hanno riservato?
La risposta è che sì: mi sono divertito tantissimo a correre il mio primo trail, la Rupes Run. A letteralmente due braccia di mare l’isola d’Elba in una mattinata limpidissima ci guardava correre sulle rupi scoscese sul mare. A proteggerci, il fitto di una macchia estesa e piacevolmente umbratile di pini marittimi.
Ora, frequentando abituali corridori di trail per circa ventiquattro ore, mi sono reso conto del diverso grado di importanza che noi, ratti di strade asfaltate, e loro, leggeri scoiattoli di boschi incontaminati, diamo ad alcune cose inerenti la corsa.
Perché a fare di un trail un’impresa titanica non è tanto la distanza in sé, quanto più il dislivello positivo. Cioè, in pratica, quanta salita totale c’è da affrontare in una gara. Perché sì: non basta correre sullo sterrato, in mezzo alle pietre e alle radici, ci vuole pure la salita. In questo caso, qualcosa come 760 metri circa - e va da sé, che essendo la partenza allo stesso punto dell’arrivo, dislivello positivo e negativo (la discesa) si equivalgano.
La distanza - praticamente l’unico dato su cui mi sia mai permesso di giudicare la difficoltà di una gara - è un dato poco interessante per un atleta di trail running.
Nel cercare di carpire quante più informazioni possibili circa il come affrontare questo salto nel buio totalmente ignoto, ho raccolto in linea generale questo feedback dai provvidenziali corridori di trail.
La salita non è niente: è la discesa che ti frega
Non ho potuto che dare ragione allo stuolo di trail runners che mi hanno dispensato questo consiglio. D’altronde, a Madrid, ad aprile, sono stato fermato da una discesa - sull’asfalto.
Ottimo, sapere che avrei affrontato ben 760 metri di discesa tra sassi e radici che spuntavano dal nulla mi rincuorava.
Fortunatamente il tempo di pensare alle conseguenze infauste della gara, a quello che sarebbe potuto andare male è stato poco, perché senza accorgermi del tempo che è passato la gara è cominciata.
E io mi sono fatto assorbire completamente dal contesto.
Il risultato è stato totalmente inaspettato: in una situazione per me completamente nuova, potenzialmente rischiosa - lanciarsi su pendenze sterrate di corsa resta un’attività che contempla un rischio per la salute - da solo in mezzo a boschi e su sentieri che non conoscevo (è molto più difficile, rispetto a una gara di running su strada, che i gruppi siano compatti e ci si ritrovi a correre con altre persone), ho percepito una pace dei sensi totalmente inaspettata.
Se ora, mentre scrivo, penso all’assoluto grado di calma e tranquillità che ho provato durante tutto l’arco della mia esperienza alla Rupes Run, mi viene da classificare questa esperienza di corsa tra le più belle che abbia mai provato. Un po’ come la mia prima gara, nel 2021.
Lo stesso flusso. Un passo dopo l’altro, sono stato accompagnato solo da positività.
Comincio a pensare che l’idea di gettarsi mente e corpo in qualcosa, senza pretendere da sé stessi nulla di più di quanto non si sia in grado di dare, né tantomeno aspettandosi qualcosa dall’ambiente esterno sia la chiave per avere successo in quello che si fa.
Pain cave
Con Paolo Marconi - uno degli organizzatori della Rupes Run - due settimane fa abbiamo parlato del concetto di pain cave: la grotta del dolore (qui il link). È un po’ come la grotta di Platone, ma applicata al concetto di dolore riferito allo sport, specie quello su lunga distanza - l’endurance come piace a noi chiamarlo.
Come funziona la pain cave? La testa proietta immagini negative su quella tela bianca che è il cervello dell’atleta di endurance al momento dello sforzo. Queste visioni - fa un po’ apocalittico-dantesco, ci piace - riportano sempre, solo e inesorabilmente allo stesso risultato: l’idea del fallimento, in generale - non necessariamente riferito alla gara.
E purtroppo, credo di aver scoperto che il miglior modo per evitare la pain cave è il più ridicolmente semplice: non entrarci. Ho avuto prova di ciò proprio durante questo mio primo trail.
Se proprio si finisce nel loop negativo della pain cave il modo per uscirne è aggrapparsi a pensieri positivi. Ma non è la soluzione ideale: in definitiva, il trucco per riuscire in una gara di lunga distanza è, a quanto pare, non pensare.
Colpo di scena.
La corsa e io: l’ultimo anno
Qui cade tutto il castello di A cosa penso quando corro?: comincio a chiedermi, ho forse sbagliato tutto? Pensare è la morte della performance, della prestazione atletica?
Non so se sono pronto a dare una risposta così netta.
Però, sono pronto a dare una mia versione della storia, che per certi versi è liberatoria: mi sento come un atleta che ha fatto uso di sostanze illecite che vuota il sacco in diretta tv, o come un farabutto della finanza che spiega ai microfoni di un TG quanta gente ha fregato - anzi no, quelli si coprono la faccia e non parlano con nessuno.
Ho odiato correre, durante tutta l’estate. Vuoi il caldo, vuoi il fatto che avere un piano di allenamento mi ha costretto, forzato, obbligato - fino alla nausea, letteralmente - a scendere in strada a fare quelle schifose ripetute: negli ultimi due mesi ho vissuto la corsa come una condanna. D’altra parte, per almeno dodici mesi la corsa è stata legata, per me a pensieri negativi.
Infortuni, prestazioni che non sono arrivate, stanchezza: paura delle distanze, paura degli allenamenti, della fatica. Sì, il mio sonno è stato disturbato dall’idea che l’indomani, al mattino, un allenamento intenso mi avrebbe aspettato.
Perché? Come mai? Come sono potuto passare dalla gioia che questo sport mi dava a questo?
In generale, credo di aver complicato la mia passione per la corsa più di quanto non fosse necessario: tutti quei discorsi motivazionali, tutti quei panegirici sullo scegliere di essere la versione migliore di sé stessi, di fare quello che è necessario fare, e così via.
Ho caricato un gesto semplice, facile come il concetto bambinesco di andare da un punto A ad un punto B nel minor tempo possibile - un bambino direbbe più velocemente degli altri - di una seriosità e gravità che hanno finito col compromettere il mio intero rapporto con la corsa
Eppure, per qualche motivo…
Eppure, per qualche motivo, sono andato avanti. Non so bene perché. Sarà per onorare un impegno preso prima con me stesso che con altri? Sarà perché effettivamente ci sono cose peggiori che preparare una gara controvoglia? Non lo so.
E la Rupes Run mi ha ricordato perché corro.
Perché quando lo faccio mi sento estremamente gratificato: gratificato dal vedere che il tempo investito in qualcosa paga i suoi dividendi in progressi tangibili; mi sento gratificato dal rapporto instaurato con altre persone sulla base di una passione comune. Gratificato dal terminare un allenamento che fino a un’ora fa mi spaventava.
Un paio di cose che ho imparato correndo
Se oggi, domenica 1 ottobre 2023, dopo due anni e mezzo per strada e con una decina di gare di vario tipo sulle spalle (nulla, letteralmente), dovessero chiedermi cosa hai imparato correndo?, avrei un’idea abbastanza chiara sulla risposta.
Una cosa che mi ha insegnato la corsa è di non complicare le cose che non hanno bisogno di essere complicate - come la corsa stessa. Non so se definirla la cosa più importante che la corsa mi abbia insegnato, ma certamente è uno di quei precetti che ha una sua rilevanza. La retorica stanca, appesantisce. Per correre c’è bisogno di essere leggeri: per centrare la performance c’è bisogno di non pensare e insegnare alla mente a seguire il flusso del passo senza che questa si svegli dal torpore e si renda conto di stare facendo fatica.
Non so se eliminare l’overthinking sia sempre positivo, ma tendenzialmente aiuta a semplificare le decisioni, ad alleggerire il carico cognitivo richiesto alle cose e lo stress
E il che non vuol dire non dare peso alle cose importanti - ricordate? Non complicare le cose che non hanno bisogno di essere complicate.
Sono grato di essermi gettato senza pensare troppo alle conseguenze infauste o ai possibili risvolti negativi - tra cui l’onta per una prestazione negativa - in un’esperienza totalmente nuova come la Rupes Run.
Com’è finita la gara?
Alla fine, per un’indicazione sbagliata io e un altro gruppo di runner fortissimi (loro, di certo non io al primo trail, che comunque ero dignitosamente a metà gruppo), ci siamo persi nel bosco.
Abbiamo vagato per circa venti minuti senza meta, e quando abbiamo ritrovato la strada eravamo abbondantemente dietro al gruppetto di chiusura per la distanza dei quindici kilometri.
E siamo arrivati tra gli ultimi - loro mi hanno staccato, ovviamente, quindi io sono proprio arrivato tra gli ultimissimi.
Non ce la faccio a essere arrabbiato, né deluso, per il posizionamento finale. In tutta onestà - davvero, credetemi, senza alcun tipo di retorica moralistica attorno al fatto che l’importante è partecipare - ritengo che questo posto tra gli ultimi sia uno dei piazzamenti di cui vado più fiero in assoluto, e di cui sono più felice.
Mi sono divertito, le gambe stanno bene, al traguardo c’erano i miei amici, la natura e la giornata erano stupende.
Un po’ a la Dante, con il più banale, trito, meschino, sentito e risentito parallelismo, mi sono perso in un bosco, e quando sono uscito, «rinovellato di novella fronda», ho ritrovato lo stimolo, la leggerezza e la gioia di correre che mi stanno guidando verso il prossimo obiettivo.
Va tutto bene: ci vediamo a Ravenna il 12 novembre per la Mezza Maratona.