Dorando: Episodio 2
🏴Londra 1908: -34 giorni alla maratona Olimpica di Parigi 2024. Da qui alla gara raccontiamo le maratone olimpiche più iconiche, e le storie incredibili di atleti e paesi ospitanti
Oggi vi riporto a Londra, 120 anni fa, per un instant classic delle storie olimpiche. Tra le frigne dei membri della famiglia reale, un giovane garzone di Correggio reclutato dalla squadra di atletica italiana due settimane prima della maratona olimpica stacca tutti e vinc…
Eh no, non così in fretta dai.
Regal capricci
Il dito di Alessandra di Danimarca, consorte di Edoardo VII di Inghilterra, si abbassa sul telegrafo posto nel palco d’onore del White City Stadium di Londra, a inserire l’ultimo segnale prima della partenza del messaggio.
Sono le due e trenta (PM) del 24 luglio 1908, e nella City c’è un caldo afoso: fino al giorno precedente Londra è stata investita da una pioggia battente che ha alzato il tasso di umidità. Il cavo di rame incaricato di trasportare il messaggio telegrafico si sbobina tra le streets e i parks di Londra sfidando le temperature del centro cittadino. Poi, finalmente, le verdi campagne inglesi: irrorate dalle piogge regolari e ora riscaldate dal sole. Londra e i suoi dintorni sono un Christmas Pudding nel pieno delle sue numerose ore di cottura a bagnomaria. In vista c’è il castello di Windsor. Lì, non si sa bene se su uno dei regalissimi terrazzoni scavati nell’elegante ma allo stesso tempo austera facciata in pietra viva oppure da qualche parte in giro per il parco, termina il filo di rame, a cui è agganciato il ricevitore.
Il messaggio diretto a Windsor è un ordine, e il senso dell’ordine è semplice: «Quando arriva l’assenso della regina, Start the Race». La race in questione è la Maratona Olimpica, e la destinataria dell’ordine regale all’altro capo del filo è niente meno che la Principessa Maria del Galles, futura regina consorte di Giorgio V - nonché nonna della regina Elisabetta. Ora, un reale non prende ordini. Period. E quindi il ruolo di Maria di Teck non è quello di esecutrice materiale della partenza, ma di anello di congiunzione tra il dito sul telegrafo della regina Alessandra e il dito sul grilletto della pistola che darà il via alla gara: che appartiene al presidente del comitato organizzatore dei giochi di Londra, Lord Desborough.
Alle 14.33 il dito si abbassa sul grilletto e 56 podisti da 17 nazioni, vestiti di bianco, i pettorali fissati sulle maglie, cominciano a correre ripercorrendo la strada del messaggio telegrafico per il verso opposto.
Da Windsor, sotto le finestre dell’immenso maniero reale al White City Stadium, sotto il palchetto d’onore della regina Alessandra, che ora non doveva fare altro che aspettare pazientemente godendosi le gare della penultima giornata dei giochi.
Chiunque ora stia pensando ma guarda che strani questi reali che pur di fare i protagonisti, invece di godersi lo spettacolo lo ostacolano con le loro trovate: a voi dico, sono d’accordo. Ma senza il protagonismo patologico dei reali - sempre un po’naïf - non avremmo la maratona come la conosciamo oggi.
Figurati se le civettuole regnanti non si fossero sentite in diritto di scomodare tutti i piani perfetti congegnati dall’organizzazione per assicurare che i 40 chilometri previsti sul menu della maratona potessero essere corsi nelle migliori condizioni. No: piedi sono stati puntati e pugni all’aria sono stati sventolati. A dare il via alla gara sarà il taumaturgico tramite della famiglia reale! Avrei volentieri omesso di dare peso ai capricci ridicoli di chi ha il sangue blu, se questi non avessero una parte fondamentale nella storia non solo della maratona oggetto di questo racconto, ma anche nella Storia della maratona come evento sportivo in generale.
Anche se non potevano saperlo, i podisti in gara in quella bollente giornata di luglio avrebbero corso una maratona storica. E per questo onore a loro riservato avrebbero dovuto ringraziare la regina Alessandra e la principessa Maria. Quest’ultima suggerisce che la linea di partenza della gara sia posizionata non semplicemente a Windsor, ma in un punto specifico all’interno della tenuta, e cioè all’esterno dell’ala orientale, dove si trovavano le finestre della nursery. Da qui, avrebbero potuto assistere alla partenza dell’evento i principini - o almeno, i più giovani della nidiata di sei pargoli messi al mondo dalla prolifica Mary. Lord Desborough conosce il punto di partenza e sa dove sarà posizionato il punto di arrivo, all’interno del White City Stadium a Londra, a 26 miglia secche di distanza.
È qui che sorge un problema. Se la linea di arrivo fosse posta a 26 miglia di distanza, la conclusione della gara sarebbe stata fuori dallo stadio. E soprattutto lontano dai sacrati occhi della regina Alessandra (che, tra l’altro, è zia dei principi Giorgio e Costantino di Grecia che accolsero trottando Spyridon Louis). L’unico modo per far sì che il termine della corsa combaciasse con il seggiolone della regina è aggiungere alle 26 miglia un mezzo giro di stadio di 385 iarde. 26 miglia e 385 iarde: che fuori dal Commonwealth è 42 chilometri e 195 metri.
Anarchy in the UK
Come avrà capito chi ha letto la prima puntata di questa serie, il clima delle prime olimpiadi è dominato dall’anarchia. Le distanze delle gare sono pressapoco di 40 chilometri - da Atene 1896 ad Anversa 1920 solo due maratone olimpiche hanno un uguale numero di chilometri (è per altro una coincidenza); i metodi utilizzati dagli atleti sono pseudoscientifici; i mezzi adottati per prendere vantaggio sugli avversari sono vere e proprie illegalità (giusto per buttare benzina sul fuoco dello Spirito Olimpico).
Bene, la Maratona olimpica di Londra 1908 è un libro a sé stante in tutto questo, gioca proprio in un campionato a parte.
Il garzone di Correggio
Questa storia ha un centro di gravità. È un ventitrèenne italiano di un metro e cinquantanove, garzone nella bottega di un pasticcere di Correggio: una specie di ombelico della Pianura Padana, all’esatto centro della profonda spianata di detriti costruita dal lavorio incessante del fiume. Il suo nome è Dorando, figlio di Desiderio Pietri.
Taglio in due la pianura con il treno che mi porta dalla Romagna a Milano. Il paesaggio di centuriazioni agricole, balle di fieno, capannoni, strade provinciali, erbacce nei fossi è perfettamente intercambiabile e i caratteri che dovrebbero essere dettati dalle divisioni puramente politiche (provincie, comuni) fluiscono gli uni negli altri in un sistema di vasi comunicanti. Il segno della pianura è questa ripetitività nello spazio, e anche nel tempo. I campi di grano che vedevo nelle corse serali di giugno erano gli stessi che vedeva Dorando Pietri più di 120 anni fa, nel 1903, quando si iscriveva per la prima volta alla società sportiva La patria di Carpi?
Il percorso che lo porta nella squadra olimpica italiana per Londra culmina appena una manciata di settimane prima della gara, quando Dorando, nonostante un DNF a un trial corso a Roma riesce a ritagliarsi un posto nella squadra.
Una corsa selvaggia
Nell’afa del luglio british, a differenza di tanti suoi avversari partiti al ritmo di un imprudente e veloce passo gara, Dorando (pettorale numero 19) adotta una strategia di attesa - che denota una certa lungimiranza. Il suo piano gara è semplice: conscio del suo potenziale, deve evitare le forzature nel passo per tutta la prima parte di gara, per sfruttare le energie residue nella parte finale. Nonostante l’approccio conservativo, la rapidità del suo passo lo mette da subito nelle primissime posizioni.
Ci sono una serie di avversari da tenere d’occhio. Il primo è un colono sudafricano di origine britannica, Charles Hefferon; poi c’è uno statunitense, Johnny Hayes; infine, c’è un personaggio da serie tv, un pellerossa canadese di nome Tom Longboat. È soprannominato Il bulldog di Britannia, è alto venti centimetri più di Pietri e quando lo supera sbuffa come una locomotiva a vapore, pur senza mostrare segni di fatica. La sua gara finisce al 27esimo chilometro. Dopo aver manifestato i prodromi di un cedimento imminente, il buon Longboat si siede a bordo strada e incarica i due ciclisti al suo seguito (ogni atleta ne aveva due, che lo seguivano e supportavano) di portargli una bottiglia di champagne. Ma scusa Tom, per farci cosa con lo champagne? E che ci vuoi fare con lo campagne? Tom Longboat si tracanna la bottiglia e solo dopo aver constatato la sua impossibilità a riprendere si ritira dalla gara.
Intanto, Dorando Pietri prosegue la sua corsa, tenendo fede al piano gara attentamente stilato prima della partenza. Chilometro dopo chilometro, sorpassa con un’inusuale freschezza tutti gli avversari, che al contrario cadono per il caldo e la disidratazione. Preoccupato per la fuga non preventivata di questo sconosciuto italiano, Johnny Hayes, l’americano, incarica i suoi di inviare un automobile all’inseguimento di Pietri. Gli americani all’inseguimento hanno l’obiettivo di rallentare l’Italiano con un mix tra polveri sollevate e gas di scarico. A placare la situazione arrivano i diplomatici ciclisti a supporto di Pietri: che con le buone fanno capire agli americani di sloggiare - italiani maneschi 1 - americani 0.
L’ultimo avversario che Dorando Pietri deve acciuffare prima di volare verso la vittoria finale è Charles Hefferon, il sudafricano. Compito abbastanza semplice: cede per la stanchezza e la debilitazione a circa un chilometro e mezzo dalla fine, continuando a trascinarsi verso lo stadio.
Panic! At the finish line
Calata la musica della banda, sugli spalti del White City Stadium non c’è altro che un mormorio sommesso e 93 mila coppie di occhi puntate sull’ingresso da cui verso le cinque e un quarto entra Dorando Pietri barcollando. Boato. E poi, subito dopo, sgomento: ma dove va? Pietri entra e prende la direzione sbagliata. Un nugolo di cappelli (chiari e a tesa larga degli ufficiali di gara, neri e a punta di Scotland Yard) circonda il minuto podista e lo riporta sul giusto binario.
Pietri caracolla, come si fosse appena svegliato in after a casa di un qualche sconosciuto; e al buio non sapesse trovare l’interruttore per capire la strada per il bagno.
Poi crolla a bordo pista.
Panico.
Un ufficiale di Scotland Yard dirada una folla di curiosi che per qualche motivo erano attorno alla pista, mentre un giudice, imboccato un enorme megafono analogico chiama a gran voce i medici di servizio. Ma Dorando non può essere aiutato. Deve arrivare in fondo sulle sue gambe. D’altronde, il palchetto reale con la regina Alessandra è lì! Sono giusto due passi, neanche duecento metri!
Per cinque volte durante il mezzo giro finale, Dorando crolla al suolo, supportato nella caduta per evitargli traumi. Per cinque volte si risolleva e trotta per qualche metro: poi crolla di nuovo. I soli trecento metri finali gli costano circa nove minuti di tempo. Diventa palese come alcuni ufficiali lo stiano chiaramente sostenendo: e sostegno dopo sostegno, Dorando Pietri taglia il traguardo. Il momento è immortalato in una foto d’epoca di rara bellezza.
L’ufficiale con il megafono, Scotland Yard che tenta di evitare invasioni, i sorrisi di eccitazione dei presenti; c’è un’atleta in singlet - forse un lanciatore del peso - che sullo sfondo agita la mano in segno di vittoria. Chissà che non abbia abbandonato la pedana, svuotato di interesse per la sua disciplina, con la sola speranza di testimoniare quel momento unico.
Il corpo di Pietri ha una forma scalena. Approccia il sottile filo bianco come se fosse un palo per il limbo. Il baricentro è spostato all’indietro, mentre la linea delle anche è troppo bassa per pensare che, dopo aver tagliato il traguardo, Dorando possa aver fatto più di un paio di passi, prima di cadere stremato al suolo per un’ultima volta.
Mentre il corpo svuotato di energie crolla sotto il proprio peso, lo stadio esplode nell’eccitazione. Anche se nessuno quel giorno poteva saperlo, per la prima volta un uomo era arrivato in fondo a quella che sarebbe diventata la distanza ufficiale della maratona - quella che ancora oggi conserviamo.
Il povero Dorando viene portato via in barella. Nel frattempo, con circa trenta secondi di ritardo, arriva l’americano Jhonny Hayes. I delegati americani avevano visto tutto: Pietri, the italian, era stato aiutato! Nessuno poteva negarlo: per evitare un caso politico tra Inghilterra e Stati Uniti, visto anche il rapporto non propriamente idilliaco tra alcuni degli atleti a stelle e strisce e i reali inglesi, il comitato olimpico è costretto a reclamare l’oro italiano conquistato da Dorando Pietri e ad assegnarlo a Jhonny Hayes.
Pietri è squalificato.
Ma non torna a casa a mani vuote. Due sono i tributi che gli sono fatti: il primo è della regina Alessandra, che gli dona una coppa d’oro, recante questa incisione
Per P. Dorando, in ricordo della Maratona. Da Windsor allo Stadio, 24 luglio 1908. Dalla regina Alessandra.
Il secondo tributo riservato a Pietri potrà avere un valore economico meno attraente della coppa d’oro della regina Alessandra. Lo introduciamo ritornando alla foto dell’arrivo di Dorando al traguardo. L’uomo alla sinistra di Pietri è stato per molto tempo scambiato per Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes - è in realtà il Dr. Bulger, direttore medico dei giochi. Doyle era in effetti presente a White City il giorno della gara: ma era comodamente seduto sugli spalti, dove deve aver cominciato ad appuntarsi alcune impressioni che confluiranno in un articolo del giorno successivo uscito sul Daily Mail. L’elzeviro si intitola His Description of Dorando’s beautiful run. A Pietri Arthur Conan Doyle tributa queste frasi:
Will he fall again? No, he says, and balances; then he is through the tape into a score of friendly arms. He has gone to the extreme of human endurance. No Roman of prime ever bore himself better: the great breed is not yet extinct.
Cadrà ancora? No, esclama, e trova equilibrio; poi, oltre il nastro, in una selva di mani amiche. Ha rasentato l’estremo della resistenza umana. Nessun romano dei tempi migliori si è mai sostenuto meglio di così: la grande razza non è ancora estinta.
Quella del 1908 è l’unica partecipazione olimpica di Pietri alle olimpiadi; già dall’anno successivo gli arrivano una serie di offerte economiche allettanti per poter gareggiare in varie competizioni ed esibizioni. Diventa a tutti gli effetti un Professionista - e per buona parte della loro Storia le Olimpiadi sono state gare a esclusiva partecipazione di non-professionisti.
Dopo aver corso in tutto il mondo, si ritira dall’agonismo nel 1911, ad appena 26 anni. Muore nel 1942 a cinquantasei anni. Alla memoria di Dorando Pietri sono stati dedicati film, libri, serie televisive, canzoni; gli è stato intitolato un pala sport.
Innumerevoli strade prendono il nome da Dorando, specie negli Stati Uniti. La più famosa resta in Europa, ed è la Dorando Close di Londra, a due passi dal luogo dove sorgeva il White City Stadium.
Fonti e letture
Le fonti per questa puntata sono il Capitolo IV del volume The Olympic Marathon, di David Martin e Roger Gynn («Human Kinetic», 2000). L’articolo di Conan Doyle (gli estratti migliori qui).
La puntata precedente
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