Da Maratona ad Atene: Episodio 1
🇬🇷 Atene 1896: -41 giorni alla maratona Olimpica di Parigi 2024. Da qui al giorno della gara raccontiamo le maratone olimpiche più iconiche, e le storie incredibili di atleti e paesi ospitanti
Visto che Storie di Corsa - il mio podcast - ha rallentato la frequenza di uscita a una volta al mese, visto che raccontare storie mi manca e visto che restano poco più di quaranta giorni al prossimo grande evento podistico dell’anno, la maratona di Parigi 2024, in queste domeniche estive sotto l’ombrellone o al rifugio in montagna oppure distesi su un prato o sul divano vi accompagno per farvi scoprire la storia di alcune delle maratone olimpiche più incredibili tra il 1896 e oggi.
Come sempre ogni domenica alle 10.00.
In questo primo episodio, partiamo da dove tutto è cominciato: la Grecia 🇬🇷 Ci catapultiamo nel 1896 e corriamo su stradine bianche con Spyridon Louis, Kharilaos Vasilakos, Teddy Flack e gli altri personaggi che hanno fatto la storia della prima Maratona Olimpica.
Il ponte di Maratona
Uomini: pensate alla vostra patria, pensate alla bandiera che sventola sul palo piantato in mezzo allo stadio. Urrà per i giochi olimpici.
C’è giusto il tempo di raccogliere il plauso delle poche persone - almeno una cinquantina - che se ne stavano ad ascoltare queste parole, probabilmente concentrate su tutt’altro: come la fatica immane, o l’ignoto che stava per attenderle. Poi, il braccio del colonnello Papadiamantopoulos, l’incaricato olimpico ai convenevoli, si alza verso il cielo: non so se il militare pensasse che dove finisce la sua mano dovesse in qualche modo incominciare una pistola. Da quella che regge, sbandierata contro il cielo terso di Maratona, un villaggio dell’Attica separato da Atene da una barricata di colline spoglie, parte un colpo.
Sono le due del pomeriggio di venerdì 29 marzo 1896 e fino a questo momento Maratona è solo un luogo geografico: o per essere ancora più precisi, per com’era il Mondo a fine Ottocento - un posto tutt’altro che gradevole, fatto di potenze occidentali che tentavano di accaparrarsi arbitrariamente pezzi di globo come fossero tartine al salmone a un buffet nunziale - uno sperduto villaggio greco a pochi chilometri dal mare Egeo. Roba di poca importanza. Per alcuni, quelli che hanno avuto la fortuna di imbevere la loro testolina positivista negli studi classici, Maratona si trova spesso in un complemento di denominazione: “di Maratona”, riferito alla famosa battaglia che il capo degli ateniesi Miliziade condusse contro l’attacco di Dario I, imperatore di Persia, nel settembre del 490 Avanti Cristo. Uno scontro di civiltà: le spinte indipendentiste delle poleis, o città-stato, contro la tendenza accentratrice della monarchia assoluta; le mollezze orientali contro la posata tempra ellenica-occidentale.
Dopo il colpo di pistola del colonnello Papadiamantopoulos, da un indefinito ponticello alle porte del villaggio diciassette uomini disposti su un’altrettanto indefinita linea di partenza (le posizioni sono state assegnate in maniera indefinita poco prima) cominciano a correre in direzione di Atene, città che solo due anni prima il barone De Coubertin, prolifico pedagogo francese, aveva con successo proposto come sede della Prima Edizione dei giochi olimpici dell’era moderna. E nella quale proprio in quei giorni, in quel momento, i giochi si stavano tenendo sul serio: non senza grande successo di pubblico, autoctono e internazionale!
L’unica cosa a essere definita nel pomeriggio marzolino di Grecia è il punto di arrivo della corsa: lo stadio Panathinaiko, nel cuore della capitale, ristrutturato e tirato a lucido, con le sue scalinate di marmo accecante. Un enorme zanna bianca incastrata in una macchia silvestre di pini, nel pieno centro di Atene: a ricordare agli ellenici i fasti di un passato fiero, mastodontico, importante. La distanza precisa tra i due punti è, pressapoco (o indefinitamente), quaranta chilometri metro più-metro meno: quaranta chilometri, o venticinque miglia nel sistema imperiale. Insomma, i multipli di cinque mettono tutti d’accordo.
Era una gara di corsa come mai se ne erano viste: un conto sono le cinque miglia, od otto chilometri, che cominciavano a diffondersi nei college americani come gare su lunghe distanze. Un conto sono quaranta chilometri. Quel venerdì di fine marzo del 1896 qualcosa di nuovo stava nascendo.
Ideare la maratona
Il nome del punto geografico da cui i diciassette atleti partono smette di rappresentare soltanto un luogo: diventa il nome della corsa che i podisti stanno per affrontare, la maratona. Dal luogo, nomen omen, alla capitale. E tutto questo per l’idea di un bolso linguista intimo del barone De Coubertin!
Michel Bréal, ecco chi è l’ideatore della maratona: talmente eccitato dall’idea di riproporre una versione competitiva della corsa che costò la vita al povero messaggero Fidippide - incaricato dal generale Miliziade di riportare velocemente agli ateniesi della vittoria ottenuta contro l’esercito persiano, fece appena in tempo ad arrivare in città e mormorare qualcosa come «Abbiamo vinto!» prima di crepare per lo sforzo - da inviare al padrino dei giochi olimpici moderni una missiva di quattro pagine contenente i motivi storici che fanno della maratona una gara che si deve per forza fare. Se non altro per ringalluzzire lo spirito del paese ospitante e del suo monarca, Re Giorgio I - che da bravo regnante fino al 1895 fu in serio dubbio sull’opportunità di organizzare i giochi, vista la situazione economica tutt’altro che rosea del proprio paese.
E quindi eccoci qui: con i nostri diciassette prodi uomini sulla traccia di Fidippide - che, come ovvio, sarà il fil rouge di tutti i resoconti cronachistici di quei giorni - per le strade dell’Attica. Tredici di loro sono greci, e poi, in ordine sparso: un francese, un ungherese, un americano e un australiano. Tutti gli internazionali sono atleti che hanno gareggiato con un discreto successo in altre specialità del track and field (o atletica leggera) nel corso dell’Olimpiade: Edwin detto “Teddy” Flack (Australia), Arthur Blake (USA), e Albin Lermusiaux (Francia) costituiscono il podio dei 1500 metri piani (quest’ultimo è primatista europeo con 4.18); Flack è anche campione degli 800 metri, gara vinta appena ventiquattro ore dalla partenza della maratona, in spregio a qualsiasi norma di buonsenso che oggi adotteremmo circa la limitazione degli sforzi nei giorni immediatamente precedenti a un grande evento podistico.
In quel pomeriggio di una primavera greca, inebriati dagli effluvi mediterranei del mare, degli ulivi, degli alti pini marittimi, a sapere cosa li aspettasse erano solo gli atleti greci più uno, Gyula Kellner, ungherese. Solo loro avevano preventivamente corso la distanza di quaranta chilometri: i greci lo avevano fatto sul percorso della gara in veri e propri trials olimpici; l’ungherse lo aveva fatto in una gara di ultrarunning dai contorni oscuri tenuta qualche mese prima a Budapest. La federazione greca - chiamiamola così - arrivava alla maratona con il coltello tra i denti: era la loro gara, era una questione di Storia e Patria (S e P rigorosamente maiuscole). L’eccitazione del popolo greco era tale che l’atleta australiano Edwin Flack in una lettera al padre scrive che il mattino della gara nella chiesetta di Maratona
Si tenne una messa dove preghiere speciali furono innalzate affinché il vincitore potesse essere un greco
La forza della fede può di certo aiutare a tenere duro, ma da sola non può vincere un’impresa podistica mai tentata: per questo nei mesi precedenti i greci organizzarono i suddetti trials per selezionare (e preparare) i migliori tra i propri atleti.
I trials della nazionale greca
Una delle foto sportive più famose della Storia ritrae tre uomini che corrono su un lungo viale alberato; tutti hanno i pantaloni lunghi, due di loro hanno la camicia. Conosciamo l’identità del runner al centro del terzetto: è Kharilaos Vasilakos, studente di legge introdotto negli ambienti dell’Atene bene e cultore del proprio fisico, come si nota nella figura slanciata, spaccata verticalmente in due all’altezza del torace da una definitissima linea del pettorale. Questi tre podisti stanno correndo la prima maratona della storia: che non è (attenzione) la maratona olimpica, ma è una gara di egual distanza, tenutasi sullo stesso percorso olimpico durante i giochi Panellenici del febbraio 1896.
Sei atleti si qualificano: il primatista è il nostro studente di legge Kharilaos Vasilakos, che termina la gara in 3 ore e 18 minuti, un tempo che diventa la soglia minima di qualificazione per la squadra greca, nonché il primo benchmark assoluto per la maratona - con buona pace di Michel Bréal, che nonostante le ricerche non era riuscito a estrapolare dalla testimonianza di Luciano di Samosata il tempo che Fidippide impiegò per correre in armi da Maratona ad Atene. Alla prima tornata di atleti se ne aggiungono altri sei, selezionati due settimane dopo sullo stesso percorso.
Per 27 secondi di ritardo sul tempo limite un giovane di nome Spyridon Louis, quinto di cinque figli di una famiglia di portatori d’acqua dal villaggio di Amaroussi - oggi inglobato nell’area metropolitana di Atene - rischia di vedersi negata la possibilità di competere. Che poi, a Louis la competizione doveva importare il giusto: era un lavoratore, non un atleta, e c’era il pane da portare in tavola, per lui e per la sua numerosa famiglia. Un giorno di lavoro a inseguire di corsa il suo carretto dell’acqua fresca, da Amaroussi ad Atene e ritorno, gli permetteva di percorrere lo stesso numero di chilometri di un allenamento per la maratona: con il vantaggio che contemporaneamente gli consentiva di mettersi in saccoccia qualcosa di utile per l’economia familiare. Fa tutta la differenza del mondo.
Qualcuno di insospettabile e già introdotto nella nostra storia, però, spingeva per la sua partecipazione a tutti i costi alla gara. Chi aveva visto in lui un certo potenziale per la corsa di lunga distanza era il colonnello Papadiamantopoulos: l’uomo dei convenevoli precedenti alla partenza della gara era stato il generale di Spyridon Louis negli anni del servizio militare in marina. E aveva capito che c’era qualcosa da salvare in quel giovane alto e magro, con il fisico da runner di elite, temprato da un lavoro di fatica.
Visto che il povero Spyridon aveva corso questo secondo trial in condizioni disastrose, in un clima freddo e piovoso, inusuale per quella che dovrebbe essere la primavera greca, i selezionatori - forse convinti dalle parole al miele del colonnello - chiudono un occhio: con lui e con un altro paio di atleti la spedizione greca per la missione olimpica è al completo.
La prima maratona olimpica
Con tutte le preghiere del caso, Louis (un fervente religioso che dedica alla Madonna più di una preghiera durante il percorso), Vasilakos e il resto dei greci si ritrovano sulle stradine bianche dell’Attica, a costeggiare la costa ricamata da un’irregolare, odorosa macchia mediterranea o a inerpicarsi sulle brulle colline di terra tenute insieme dalle forti radici degli ulivi. Ad attenderli c’è lo stadio Panathinaiko, nel cuore di Atene: con la bandiera bianca e azzurra della grecia piantata sul palo al centro della pista, il suo pubblico di 80.000 tifosi greci e la presenza dei reali ad assistere alle gare.
Chi aveva preso la gara con un piglio decisamente sfrontato erano gli atleti stranieri: Albin Lermusiaux in testa; dietro di lui, Flack, Blake e Kellner - poi tutti i greci. Il reportage giornalistico di uno statunitense, tale George Horton inviato per il Bostonian, riporta che il francese che ora si trova in testa avrebbe passato l’intera notte precedente alla gara a bere vino. Ora, non serve dire che tali coloriti ritratti dei preistorici atleti di endurance vadano presi cum grano salis: ma il resoconto giornalistico di Horton è così convintamente ingenuo nell’attribuire all’allegrezza che il vino avrebbe conferito a Lermusiaux un effettivo vantaggio competitivo, che in fondo viene da credergli. In breve: Lermusiaux, alleggerito dal vino greco, come se l’alcol avesse il potere speciale di liberarlo dall’ingombrante peso delle membra, parte in tromba e stacca tutti. Più fonti, in effetti, confermano che il podista francese sarebbe partito in testa con un certo distacco, inseguito dagli internazionali, “Teddy” Flack per primo.
Intanto, gli abitanti dei villaggi si accalcano in sgangherati accrocchi ai lati delle strade, che ben presto si trasformano in ristori autogestiti. Stanno testimoniando uno spettacolo decisamente insolito: al seguito di ogni corridore c’è un ciclista che deve provvedere al sostentamento psicologico del suo assistito - in massima parte questi ciclisti si sfideranno tra pochi giorni in una versione su due ruote, e di distanza raddoppiata, della maratona; il corteo al seguito dei podisti comprende carretti di medici, ufficiali di gara e due file di cavalieri dell’esercito che mantengono l’ordine ai lati della strada. Attratti dal fresco delle case lungo il percorso, alcuni dei partecipanti si fanno ammaliare ed entrano per cercare ristoro. Intanto, altri cominciano a ritirarsi, raccattati dai carretti al seguito. Non mancano vere e proprie spinte celebrative dal basso dell’evento. Gli abitanti del villaggio di Pallini, a 25 chilometri dalla partenza, ad esempio, hanno preparato per il primo partecipante a passare una corona di fiori: che incorniciano il lungo viso appuntito e imbronciato e gli occhi cristallini di Albin Lermusiaux.
La gara degli eroi greci
Le cose non si mettono bene per gli atleti ellenici, subissati per tutta la prima parte di gara dal ritmo forsennato degli internazionali. Mentre Vasilakos, il campione della prima maratona della storia, cercava nella regolarità della cadenza un passo che potesse avvicinarlo al pacchetto di atleti in testa, chi sembrava noncurante della situazione e insolitamente tranquillo era Spyridon Louis, il portatore d’acqua qualificatosi per il rotto della cuffia.
Passando per il villaggio di Pikermi, a metà percorso, Louis staccato con un importante gap dagli avversari davanti a lui si ferma a una locanda. Chiede un generoso bicchiere di vino: l’oste, ospitale alla maniera greca, non si fa pregare. Poi, comincia con le domande sulla posizione degli avversari. Trangugia il vino mentre ascolta la risposta. Rinfrancato, con una manica del camicione bianco si pulisce la bocca ed esclama «vado a prenderli, poi vinco questa gara». E parte all’inseguimento.
Contro qualsiasi aspettativa, il primo a cedere è il leader Albin Lermusiaux. Prima di mollare definitivamente, l’atleta francese incoronato dei fiori di Pallini tenta un colpo di spugna finale: chiede un goccetto d’alcol ristoratore al ciclista suo accompagnatore. L’alcol, però, questa volta non fa da pozione che toglie peso alle membra, né mitiga la fatica: il caldo esacerba la stanchezza del francese. La corona di fiori leggiadri si fa pesante come il giogo di un bue costretto ad arare un campo rinsecchito come le strade bianche e polverose dell’Attica. Nonostante la defaillance ai fini della classifica, Lermusiaux, superato da un gran numero di atleti, riuscirà comunque a terminare la gara.
Louis e Vasilakos recuperano terreno sul nuovo atleta in testa, “Teddy” Flack. Mentre il campione dei giochi panellenici resta leggermente dietro, Flack viene rimontato e sorpassato da un incredibilmente fresco Spyridon Louis attorno al chilometro 34. Dopo un altro paio di lunghezze, il povero Flack si dirà «impossibilitato a compiere un altro passo»; a bordo strada, attende con quieta e lucida rassegnazione il fondo del corteo e si fa trasportare ad Atene a bordo di un carretto - il servizio scopa ante litteram.
«È un greco! È un greco!»
Sempre Flack, in una lettera al padre confessa:
In fondo, è meglio così: non c’era un ateniese che non fosse sul percorso o allo stadio, le case e gli edifici dovevano essere chiusi a chiave, perché tutti erano in strada. Non voglio proprio immaginare cosa sarebbe potuto accadere se a vincere la maratona non fosse stato un greco.
Un assaggio del pandemonio (sic) che si sarebbe sollevato in caso di esito negativo della spedizione greca alla prima maratona lo si vive all’interno del Panathinaiko nel momento in cui un messaggero tedesco in bici riporta al pubblico, ignaro di qualsiasi tipo di informazione sulla gara, che in testa dopo il trentesimo chilometro non c’era un ellenico, ma l’australiano Teddy Flack.
L’escalation viene evitata per un pelo: un secondo messaggero fa il suo ingresso nello stadio al grido di «È greco! È greco!», e riporta la notizia dell’avvicendamento alla testa della gara, ora condotta da un atleta ellenico. Tra i presenti, che nel corso dell’Olimpiade non avevano praticamente avuto alcun motivo di gioire per un loro atleta vittorioso, si diffonde fulmineamente la voce che il leader non è il ritirato Flack, ma il loro atleta Spyridon Louis! Le 80.000 teste del Panathinaiko cominciano a voltarsi insistentemente verso le porte dello stadio, in attesa di veder spuntare il campione.
Poi, durante le gare di salto con l’asta un colpo di pistola rompe l’attesa: dopo 2 ore, 58 minuti e 20 secondi Spyridon Louis fa il suo ingresso nello stadio. Il mormorio del pubblico si dischiude in un grido di gioia nel vedere la figura bianca di Louis approcciare l’ingresso. L’inviato del Bostonian George Horton ne fa un ritratto poco lusinghiero:
Quando fa il suo arrivo, Louis è un oggetto pietoso. La sua divisa bianca è fradicia di sudore, è coperto di polvere, il suo viso è viola di sangue per lo sforzo.
Una descrizione che mitiga il ritratto bruegheliano di Horton arriva da un altro testimone privilegiato della gara, un greco di nome Charalambos Anninos:
Entra nello stadio correndo, affaticato ma non esausto… Giunto davanti ai reali si leva il cappello da marinaio e lo scuote a lungo, emozionato.
La standing ovation è totale. Fiori, monetine, cappelli, ramoscelli d’ulivo, bandiere della Grecia volano giù dagli spalti, verso la pista. Il principe Giorgio e il principe Costantino raggiungono Spyridon Louis sulla pista dello stadio mentre l’atleta percorre l’ultimo giro. I reali corrono con il bracciante, lo baciano sulle guance. La banda intona l’inno nazionale greco. Nel tripudio trionfale della festa, una manciata di minuti dopo entrano nello stadio Kharilaos Vasilakos e un terzo greco, Spyridon Belokas.
A rovinare l’en plein greco sul podio è il quarto classificato, l’ungherese Gyula Kellner, giunto al traguardo appena cinque secondi dopo Belokas. Si presenta al cospetto del giudice supremo della competizione, il principe Giorgio, per lamentare una scorrettezza da parte del greco arrivato prima di lui: lo avrebbe visto percorrere un tratto del percorso su un carretto, salvo poi farsi lasciare sul percorso per chiudere la gara al terzo posto. Dopo una rapida consultazione, la sentenza sommaria è impietosa verso il povero Belokas: squalificato senza possibilità di appello. L’ungherese è al terzo posto.
Spyridon Louis conquista il primo posto e una piccola coppa d’argento disegnata e realizzata da Michel Bréal in onore del vincitore della Maratona Olimpica. I reali gli promettono in dono qualsiasi cosa desiderasse: lui chiede un nuovo carretto e un somaro, per continuare il suo mestiere di portatore d’acqua, da Amaroussi ad Atene - l’estate greca sta arrivando, e come sempre l’arsura dell’Attica porterà tanto lavoro (si spera). Il campione della Prima Maratona Olimpica non competerà mai più. Sarà uno degli ospiti d’onore nell’edizione olimpica più ambigua di sempre: quella del 1936, a Berlino.
Oggi Spyridon Louis riposa nel cimitero di Amaroussi.
Fonti e letture
Le fonti per questa puntata sono il Capitolo I del volume The Olympic Marathon, di David Martin e Roger Gynn («Human Kinetic», 2000); That memorable first marathon, di Anthony Bijkerk e David Young, in Winter 1999 - che raccoglie tutte le testimonianze, dirette tra cui:
Parte del resoconto di Charalambos Anninos (1896);
L’articolo di George Horton per il Bostonian (1896);
La lettera di Edwin Flack al padre (1896).
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