Capire il record di Kelvin Kiptum
Il 23enne kenyano che ha abbattuto il tempo di Kipchoge non ha soltanto infranto un record del mondo
Ogni tanto mi capita che qualche persona non addentro al mondo del running, a sentirmi parlare della mia passione, dei miei allenamenti e delle corse che ho in programma, mi chieda:
Ma tu ti stai allenando per vincere questa gara di corsa?
Alla domanda - che io chiaramente percepisco come ingenua, senza nessun accenno di malizia - abbozzo un sorriso e rispondo che no, le possibilità per un amatore del mio livello di vincere una gara di corsa, ma anche solo di avvicinarsi alle prime posizione sono pochissime.
Per il 99.99999% delle gare, queste possibilità di vittoria sono tendenti allo zero.
Convinto e tutto sicuro di me stesso per la chiarezza e la sicurezza della risposta appena data, incasso quasi sempre lo sguardo tra il confuso e il divertito di chi non capisce che senso possa avere prepararsi a una competizione sportiva (letteralmente a una gara) che si saprà di perdere.
E infatti, la chiosa alla discussione è sempre la stessa: «eh sai, ai miei livelli si tratta quasi sempre di una corsa contro sé stessi, più che contro gli altri».
Fine della storia.
Ma un tassello ulteriore, un’ulteriore domanda viene aggiunta spesso agli interrogativi dei non addetti ai lavori: quanto vanno forte quelli che arrivano per primi alle maratone?
Rispondere a questa domanda non è semplice. Anche assestando secchi, e sicuri di noi stessi, la risposta alla domanda non è facile far comprendere a un non runner l’idea di quanto sia insensato e folle il ritmo tenuto da un professionista durante una maratona.
Cosa può dire a un non appassionato una scansione numerica come due ore e trentacinque secondi, il tempo che Kelvin Kiptum, 23 anni dal Kenya, ha impiegato per completare la maratona (42 kilometri) di Chicago? Sarebbe tanto diverso dal rispondere: quanto vanno forte? Troppo per tutti, ad esempio?
Hai un paio d’ore da ammazzare?
Ho promesso che avrei cercato di restituire un’idea precisa di quanto sono veloci i professionisti, in modo tale da giustificare le mie affermazioni sicurissime che escludono una mia eventuale vittoria futura in una maratona, mezza maratona, dieci kilometri.
Prendiamo come riferimento, appunto il tempo fuori da ogni logica con cui Kelvin Kiptum - del quale parleremo in maniera estensiva tra poco - ha vinto la maratona di Chicago: 2.00.35.
Ora prendiamo il tempo medio mondiale per la maratona: una media di tutte le prestazioni registrate da tutti i maratoneti del mondo per l’anno 2019.
4.32.59.
La differenza che c’è tra il record del mondo della Maratona e il tempo medio di completamento a livello globale è di due ore e trentadue minuti.
Nelle due ore e mezza che intercorrono tra l’arrivo di Kiptum e l’arrivo del runner medio, cosa riesce a fare il campione per ammazzare il tempo?
Kiptum in queste due ore e trenta riuscirebbe a:
Leggere circa 18 episodi completi di A cosa penso quando corro?
Andare a piedi da Parco Nord ai Navigli di Milano.
Andare in auto da Milano a Bologna.
Andare da Milano a Firenze in Frecciarossa - concedendo al treno un ritardo di trenta minuti.
Andare in aereo da Milano a Copenhagen.
Vedere circa 420 reels da trenta secondi l’uno su TikTok.
Vedere quasi tutto Il Signore degli Anelli. La compagnia dell’Anello.
Vedere tutta la finale dei Mondiali 2006 Italia-Francia, compresi i rigori.
Ascoltare tutto Dark Side of the Moon, Wish You Were Here e Animals dei Pink Floyd. Con il tempo di andare in bagno tra un disco e l’altro.
Correre un’altra maratona allo stesso passo. Con circa venti minuti di tempo per fare la doccia al traguardo.
Anche prendendo un risultato meno drastico, magari una maratona corsa entro le tre ore (che vorrebbe dire correre la gara a una media di quattro minuti e sedici secondi al kilometro, ad oggi l’obiettivo di vita di una nutrita schiera di runners), Kiptum si ritroverebbe ad aspettarci per un’ora.
Ecco, diciamo che in un’ora leggerebbe sei articoli di A cosa penso quando corro? invece che 18.
Ma come sono forgiati i campioni keniani? È solo un talento naturale? O esiste di fatto un sistema che fa da catalizzatore allo sviluppo di fenomeni della corsa su lunga distanza?
Per rintracciare le origini delle straordinarie performance degli atleti keniani, lascio la parola ad Andrea Codega di Mappe. Di seguito, un estratto dal suo pezzo sul Kenya: iscriviti a Mappe per leggere la versione completa, non te ne pentirai.
Correre a scuola
Il Kenya è l’autentica eccellenza nelle corse di atletica ad alto kilometraggio, insieme a Etiopia e Uganda. Attualmente, appartengono ad atleti kenioti i record del mondo sugli 800 metri maschili, 1500 metri e 3000 siepi femminili e nella maratona maschile, mentre i due vicini africani si spartiscono i record sulle altre lunghe distanze.
La teoria secondo cui i Paesi centrali africani eccellono nella corsa poiché fin da piccoli corrono per andare a scuola sta a metà tra mito e realtà. Ciò che è vero è quanto contenuto in questo reportage de La Gazzetta dello Sport da Eldoret, all’inizio di quest’anno.
Eldoret è una delle città più grandi del Kenya: è vero che diversi bambini coprono molti km a piedi per recarsi a scuola in città, ma a questo si affianca una vera e propria centralità scolastica nell’educazione fisica. Come racconta Godwin, insegnante di un istituto primario, nelle scuole dedicano all’attività fisica almeno un’ora tutti i giorni.
Le testimonianze dei bambini che citano proprio Eliud Kipchoge come punto di riferimento mostrano come la corsa, in Kenya, sia un fatto sociale prima ancora che sportivo. Un orizzonte cui tendere per avvicinarsi ai propri miti sportivi, un viaggio per cercare un riscatto ma a piedi scalzi, quelli con cui spesso corrono i bambini.
Tanti bambini keniani, infatti, corrono fin da piccoli per tentare di emanciparsi dalla povertà. Eccellere nella corsa significa accedere a borse di studio, alla possibilità di andare all’estero. E a questo si affianca la passione per i propri beniamini sportivi: in Kenya chi corre ad altissimi livelli è un idolo nazionale.
(da Il muro delle due ore, #44 Mappe - Kenya 🇰🇪, qui il link alla newsletter).
La maratona di Kiptum
Abbiamo rapportato le prestazioni di un corridore medio a quelle di un campionissimo, abbiamo guardato più da vicino la fucina di talenti del Kenya: a questo punto non resta che raccontare il record di Kelvin Kiptum a Chicago.
Quella di Kiptum a Chicago è stata una prestazione semplicemente surreale dal punto di vista sportivo. Letteralmente nulla di mai visto prima.
Innanzitutto, che questo record sia arrivato a Chicago è già di per sé una sorpresa. Come per Berlino, il percorso di Chicago non presenta dislivelli significativi, ma a differenza della capitale tedesca the Windy City si è guadagnata questo soprannome mica per niente. I forti e frequenti venti hanno spesso condizionato le prestazioni dei top runners, facendo della maratona di Chicago una di quelle gare da chiudere in un tempo compreso tra le 2.04 e le 2.10.
Domenica 8 ottobre, però, a Chicago non soffia vento. È una notizia. Un’occasione ghiottissima, che neanche la vincitrice della maratona femminile - l’olandese Sifan Hassan - si fa sfuggire (e registra il nuovo record di categoria per il percorso).
Quello che stupisce nella prova di Kiptum è la gestione della gara: lo split tra prima e seconda parte è incredibile. In un contesto in cui il neanche troppo malcelato obiettivo, o pungolo, è lo spasmodico tentativo di chiudere una maratona ufficiale per la prima volta sotto il muro scientificamente impossibile delle due ore, Kiptum imposta una gara estrema.
Effettua il passaggio della mezza maratona in un modesto 1.00.48: nulla di straordinario, per ora - Kipchoge a Berlino nel 2022 ha passato la mezza a 59 minuti e 51 secondi, un minutino in meno.
Insomma, ipotizzando nella migliore delle ipotesi un leggero miglioramento preventivato in piano gara insieme al proprio team, Kiptum sembrava destinato a regalarci l’ennesima grande performance di avvicinamento al record di Kipchoge.
Ma di sensato nella gara di Kiptum non c’è nulla: il dato più sensazionale è quello sulla seconda parte di gara, corsa in 59.47 (più di un minuto più veloce della prima metà). Il capolavoro di questa prestazione sono gli ultimi 10 kilometri. Kiptum li corre in 27 minuti e 48 secondi.
In poche parole, Kiptum ha corso gli ultimi 10 di una maratona più velocemente di quanto non abbia mai corso una gara secca sui 10 kilometri - ci ha messo solo un minuto in più rispetto al personale sui 10,000 metri di Sir. Mo Farah.
Il tempo finale è 2.00.35. Circa quaranta secondi meno del precedente record di Eliud Kipchoge (2.01.09), in un frangente in cui trenta secondi fanno una differenza abissale - come metro di paragone, immaginate di aggiungere secondi ai tempi di un centometrista: del tipo che aggiungendo un solo secondo al tempo di Jacobs a Tokyo 2021 sarebbe stato fuori non solo dal podio della finale, ma dalla qualificazione alla finale.
Kiptum vs. Kipchoge
Che questo Kelvin Kiptum non fosse esattamente una sorpresa era evidente. Alla prima Maratona a cui prende parte registra il tempo più veloce di sempre per un esordiente - che per coincidenza è il terzo (terzo!!!!) tempo più veloce di sempre in generale.
Ma quando commentiamo il tempo monstre di Kiptum rispetto a quali altre performance lo paragoniamo?
Davanti a Kiptum all’indomani dell’esordio c’erano solo due prestazioni: i 20.01.41 di Kenenisa Bekele (a Berlino nel 2019), ma soprattutto i già menzionati 2.01.09 di Eliud Kipchoge.
Abbiamo parlato diverse volte di Kipchoge in questa rubrica (qui la prima volta).
Rubare al buon Eliud l’immagine di nume tutelare dei corridori su lunga distanza è un’impresa che porterà via a Kiptum una buona parte di carriera, se sarà in grado di confermarsi a questi livelli - non che qualcosa faccia pensare al contrario, per ora.
Sarà per la sua espressione tranquilla, per il suo sorriso sereno, per la pacatezza con cui si presta a fare l’eroe dei commercials che lo hanno come protagnista, ai contenuti social del suo sponsor tecnico - autentico artefice di patroni e santoni sportivi (Nike) - che lo vedono partecipare a distesi monologhi dal retrogusto motivazionale (che con i runner è sempre un’arma vincente), che nulla hanno della frenesia degli spot degli anni ‘10 girati con star del calcio o del basket.
D’altra parte, Kipchoge resta un grande campione: di 38 anni. In uno sport in cui sì, la maturità dell’atleta può arrivare anche molto tardi, ma se chi fa il record del mondo è un ragazzo di 23 anni nel pieno delle sue forze biologiche, c’è da preoccuparsi seriamente per il momento in cui la presunta maturità atletica arriverà.
Ritrovo in diversi indizi il segno di un passaggio di testimone tra Kipchoge e Kiptum.
Nel ghigno di Eliud poco prima di mollare il gruppo di testa intorno al kilometro 30 della maratona di Boston, dove era atteso come super papabile.
Nell’irrefrenabile gioia di Kiptum al momento dell’arrivo a Chicago: salta, continua a correre, abbraccia tutti.
Proprio in questi giorni al buon Eliud Nike ha intitolato una pista di atletica con tanto di statua presso la propria sede olandese.
Al di là della significatività del gesto nei confronti di un atleta che ha portato la corsa su lunga distanza oltre il concetto di sport, ispirando una generazione di runners, mi sembra di avvertire nella scelta di Nike sulle tempistiche un retrogusto leggeremente aspro.
Come se la carriera di questo straordinario uomo di sport fosse giunta a quel momento in cui c’è poco altro da dare: e allora tanto vale costruire la statua, perché quello che doveva essere fatto è stato fatto, e il resto sarà un di più di contorno.
È quasi ingiusto, specie all’indomani dell’ennesima netta vittoria da parte di Kipchoge alla maratona di Berlino 2023, passata sotto un relativo silenzio.
Ormai, dopo la prova di forza di Chicago, sembra che la strada che porterà una volta per tutte l’essere umano a correre i 42 e 195 metri della Maratona sotto le due ore in una gara ufficiale sembra destinata a essere aperta da Kelvin Kiptum.
Il testimone di questo grande sogno sportivo, però, gli è stato passato da Eliud Kipchoge. Al di là dei discorsi su chi possa essere il più grande di tutti i tempi, mi godo la fortuna di poter vivere l’epoca di questi atleti straordinari che stanno ridefinendo le regole di un intero sport.
Perché, per dirla alla Kipchoge, No Human Is Limited.
Per chi è arrivato fino a qui…
La forma-libro all’era dei social: l’esperimento in itinere di Scrolling Infinito (qui il link).
Amo la musica, e amo i musicisti che parlano di musica: come in questa intervista di Rick Beato a Kirk Hammett dei Metallica, che mi ha letteralmente aperto il cuore (qui il link).