A cosa penso quando corro - Eliud Kipchoge è tra i più grandi atleti viventi
Nel giorno in cui l’opinione pubblica italiana e le elite politiche europee tenevano gli occhi puntati sullo scacchiere italiano; nella domenica conclusiva della Laver Cup in cui l’azione è passata in secondo piano e il mondo dello sport salutava re Roger Federer in quello che è sembrato un protratto funerale regale; il 25 settembre 2022 Eliud Kipchoge ha infranto il Record Mondiale della Maratona.
Tempo finale: 2.01.09.
Palcoscenico dell’impresa: Berlino.
La stessa città in cui nel 2018 Kipchoge aveva infranto l’allora nuovo, irraggiungibile record del mondo di 2.01.39 secondi. No human is limited, per riprendere il suo celeberrimo motto.
Trenta secondi a livello professionistico sono un lasso di tempo infinito. Quasi come i decimi di secondo in una finale olimpica dei 100 metri.
Sempre in una capitale mitteleuropea, Vienna, Kipchoge nel 2019 aveva infranto un altro muro, impossibile.
Pur con un tempo non ufficializzato dalla federazione mondiale, Eliud Kipchoge era stato il primo essere umano a correre 42,195 kilometri in un tempo inferiore alle 2 ore (1:59:40).
Tanto è stato detto su quell’evento. Qui un articolo su questo tipo di impresa per chi fosse curios.* Qui invece un video in cui esseri umani come noi si confrontano con il passo tenuto durante l'impresa.
Io includo Eliud Kipchoge tra i più grandi atleti viventi.
E nelle prossime righe spiegherò come un keniano di trentotto anni alto appena un metro e sessantasette sia riuscito nell’impresa di tenermi incollato a radiocronache in inglese per seguire le sue imprese.
Manca un mese alla Maratona di Ravenna
Km percorsi: 519.33
Uno sport noioso
Non l’ho mai nascosto, né a me stesso né a nessuno: la corsa su lunga distanza è uno sport noioso da guardare.
Generalmente annoia me che sono un addetto ai lavori, figuriamoci un non-esperto.
Si tratta di guardare uomini e donne che corrono a un certo ritmo - impossibile stabilire se veloce o lento, almeno dalle riprese TV - seguendo un tracciato disegnato per l'occasione dagli organizzatori della gara.
Sarà che l'antico gesto della corsa - uno schema motorio innato nell'homo herectus che acquisisce la posizione voluta da Dio e dalla Teoria Evolutiva, completando il suo allontanamento dalla bestialità del terreno - è ormai sostituito da forme di mobilità più "aggiornate".
Forse si spiega così la passione di intere generazioni di italiani dediti al culto della bicicletta - romagnoli e mio nonno nella fattispecie in testa.
I due sport sono paragonabili, pur con le dovute differenze.
La sfida alla fatica, la sfida a Kronos dio del tempo: a conquistare il cuore di generazioni di appassionati di ciclismo è la sfida alla montagna, al cuore selvaggio della terra. La salita è l'acme patetico di ogni giro ciclistico.
E nessuna conquista tecnologica nella costruzione dello strumento, la bici, sostituirà la volontà del ciclista di sfidare in maniera sommessa, rispettosa e titanica la salita in tutta la sua maestosa, naturale protervia.
Perché il ciclismo - sport di endurance - sì e la maratona - sport di endurance - no?
Sarà la verve dei commentatori italiani, non particolarmente aitanti quando si tratta di creare hype; sarà la soporifera cadenza del passo dei runner: questo sport non è semplice da trasmettere in TV.
Poi arriva Eliud...
Poi arriva Kipchoge, da un villaggio del Kenya nel quale vive con il suo team.
Tanto è stato scritto e raccontato su chi sia Eliud Kipchoge. Non mi dilungherò più di tanto sull’ennesimo racconto in questo senso.
Sì, beve tantissimo the con lo zucchero - "abbastanza zucchero da far stare in piedi un cucchiaino infilato nella tazza" - e va a dormire alle 21 ogni sera solo per svegliarsi alle 5 il giorno successivo; ama la lettura e corre ogni giorno almeno per 20 kilometri.
Preferisco andare al sodo e fare un racconto di quello che è il mio Kipchoge, uno dei miei punti di riferimento assoluti nel mondo dello sport.
E non solo per il privilegio di poter condividere con lui la passione per lo stesso, meraviglioso sport, ma anche per il messaggio che, di volta in volta, questo piccolo runner keniano riesce a trasmettere.
Sulla linea di partenza indossa, come quasi sempre, una canotta bianca e pantaloncini arancio, i colori del "primo team di runner professionisti" di cui lui è punta di diamante.
Completano il look due gomitiere bianche, che lo rendono subito riconoscibile in qualsiasi inquadratura aerea - specie durante la partenza: che sia una scelta televisiva?
Le lepri - runner professionisti che fanno scia a un campione per un tratto di gara, salvo poi lasciarlo andare a vincere da solo, perché impossibilitate a tenere un passo al kilometro disumano per più tempo - lo nascondono alla vista per i primi kilometri.
Perché quando so che corre Kipchoge mi sento sempre così elettrizzato? Pur sapendo che probabilmente non ci sarà gara, visto che si tratta del migliore - ha pur sempre vinto 15 delle 17 maratone a cui ha partecipato.
Penso sia la consapevolezza che con Eliud in pista qualcosa di potenzialmente storico per l’intero sport della corsa potrebbe essere in agguato.
Non si tratta quindi tanto o solo del fatto che qualcosa sicuramente succederà: è il come succederà che non smette di attirarmi.
Prendiamo l’ultima Maratona, quella del record mondiale a Berlino.
Il passaggio sulla Mezza Maratona (21,097 kilometri) è di 59 minuti e pochi secondi. Roba da specialisti della distanza- sì, esistono specialisti della distanza Mezza Maratona e specialisti della Maratona.
Non perdo tempo a scrivere ai miei amici: “se questo continua così siamo in odore di record ufficiale di maratona sotto le due ore”.
Il record ufficiale è arrivato, frantumato di quei famosi, impossibili, trenta secondi; un tempo ufficiale sotto le due ore no.
L'arrivo: fino a pochi metri dal traguardo, lo sguardo è fisso all'obiettivo. Uno sguardo sereno e disteso, sfidante.
Solo a impresa compiuta, a poche falcate dal traguardo, la serenità contemplativa dello sguardo si allarga in un sorriso, in un'occhiata gioiosa verso le due ali di pubblico che testimoniano un momento storico per il running.
Aspettative mantenute.
Limbo a metà
Eppure, Kipchoge vive in una specie di impasse per certi versi inspiegabile, specie se confrontata con il successo planetario di altre star dello sport.
Perché parlo di impasse inspiegabile?
Correre è forse l’attività fisica più praticata al mondo.
Laddove ci possono essere sport di squadra più o meno praticati, sport individuali praticatissimi ma che pur necessitano di basica attrezzatura, quello che serve per correre è potenzialmente niente più che un paio di scarpe, e alle volte nemmeno quello serve.
È uno sport democratico, dove ricevi quanto dai. Dove a contare, più che la capacità del tuo coach o la precisione dei dati del tuo orologio è la costanza con la quale ti presenti e fai quello che serve fare.
Perché Kipchoge non è riconosciuto da tutti i runner del mondo, che sono potenzialmente superiori di numero ai praticanti di altri sport, alla stregua di un Cristiano Ronaldo, o di un Leo Messi per il calcio, di un Lebron James per il basket, o di una Venus WIlliams per il tennis?
Equazione Kipchoge
So già che molti di quelli che mi leggono avranno sentito menzionare questo atleta straordinario per la prima volta in questa newsletter.
Il runner di Kapsisiywa non è un personaggio stravagante o altisonante, pur essendo il più grande maratoneta di tutti i tempi (un GOAT - lett. “capra” - acronimo di Greatest of All Time).
Per capirci, non è un brand vivente come Michael Jordan, né un brand ambulante come Neymar.
A malapena si “indossa”, a differenza di quanto fanno grandi campioni come Rafa Nadal, che durante i suoi match ci ha abituati a look coloratissimi tutti contrassegnati dal suo marchio.
Di fatto, non mi risulta abbia alcuna linea di abbigliamento signature, né scarpe speciali col suo nome - seppure una delle poche polemiche sul runner siano nate proprio dall'utilizzo di un certo tipo di scarpa, che restituisce una prestazione davvero sopra misura.
Chiacchiere da bar, se domani io o te indossassimo quelle scarpe faremmo 200 metri al passo con cui Eliud corre per 40 kilometri.
Eliud Kipchoge non gode di un’innata carica magnetica come quella di colleghi nel campo dell’atletica come Usain Bolt, o per non abbandonare il perimetro dei mezzofondisti, lo stesso Sir Mo Farah. Non incarna un’ideale di potenza come Michael Phelps, lo squalo di Baltimora.
O almeno, finché non allaccia le scarpe e parte.
Dicevo, del metro e sessantasette di Kipchoge rapisce lo sguardo, specie durante la corsa. Raramente si incrina in smorfie di qualsiasi tipo, ma il viso è sempre sereno, durante tutta la corsa.
Non si lascia andare a smorfie di dolore come i grandi scalatori tra i ciclisti, come un Pantani all’inseguimento della vetta, per intenderci.
Solo alla fine delle sue gare, a impresa compiuta si lascia andare ad esultanze e sorrisi.
Lo sguardo di Kipchoge dice due cose:
La sicurezza in sé stesso e la serenità di chi sa di aver fatto del proprio meglio. Del blasono del grande atleta, probabilmente, non ne ha bisogno e non saprebbe che farsene: essere campione olimpico e detentore del record mondiale della Maratona non lo astiene dal pulire i bagni del villaggio di runners nel quale vive con la sua squadra, in Kenya.
Un messaggio di grande umanità. Per ispirare un gruppo di persone sterminato come i runners non servono lanci di scarpe custom o linee speciali di abbigliamento. Basta un motto: No human is limited, nessun essere umano è limitato nelle sue possibilità.
E quindi, sì, possiamo dirlo:
Abbiamo la fortuna di vivere ai tempi di Eliud Kipchoge.
Abbiamo la fortuna di emozionarci se un essere umano dai costumi umili, di quelli che amano stare tra la gente - lo abbiamo visto consegnare medaglie ai runners della maratona di Londra con il sorriso sulle labbra - riesce a dimostrarci che i limiti esistono finché noi stessi ce li imponiamo.
Questa era "A cosa penso quando corro?" episodio 10 - Apologia di Eliud Kipchoge.
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Questa settimana ho ascoltato...
Il buon vecchio Kurt Vile. Con quello sguardo da country man incazzoso.