Forse la foto più iconica dell’NBA degli anni ‘10 - una lega che per le foto iconiche ha un certo magnetismo - è quella che ritrae Dwayne Wade a braccia aperte verso il pubblico, in segno di esultanza; dietro di lui Lebron James è attaccato con il patafix a mezz’aria, il braccio destro caricato come una catapulta, la palla in mano pronta a essere scaraventata dentro al cesto.
Praticamente una fotocopia della stessa scena l’ho vista in TV qualche giorno fa, in un contesto completamente diverso: il tartan blu di una pista di atletica.
Mercoledì 12 giugno 2024, allo Stadio Olimpico di Roma, nel momento in cui il testimone della 4x100 passa in mano a Filippo Tortu, l’ultimo frazionista della formazione italiana schierata per la finale, Lorenzo Patta - che glielo ha passato - alza l’indice al cielo, rallenta, comincia a esultare. A Tortu mancano ancora un’ottantina di metri per arrivare al traguardo. Ma lo sa lui, lo sanno i presenti allo stadio, lo sa anche Mattarella e la combriccola dei ministri in gran parata. Lo sanno i 4 milioni di italiani davanti alla TV: tra qualche ora - dopo le interviste quadruple e le incombenze istituzionali - al collo dei frazionisti e dei sostituti in batteria ci sarà una medaglia, e il metallo che la compone sarà quello più prezioso. Intanto, Filippo Tortu scivola via verso la linea finale in 8,95. All’arrivo, anche lui apre le braccia; molla un urlo: la tensione si scarica in ognuno dei 41 passi che lo accompagnano al traguardo con sei decimi dagli avversari (un’era geologica). Prima di questa gara, sulle sue spalle grava il peso di una bruciante delusione sui 200 metri, in cui ha ottenuto un argento che nel quadretto idilliaco degli europei di Roma è suonato come l’unica vera nota storta.
Il cambio di Patta per Tortu è al secondo 0:35
Con questo oro, con cui simbolicamente si è chiusa l’edizione - con buona pace di Mondo Duplantis che si trattiene sulla pista per altri venti, venticinque minuti tentando di archiviare l’ennesimo record mondiale nel salto con l’asta (la notizia è che non ce l’ha fatta) - l’Italia dell’Atletica fa ventiquattro medaglie. Undici ori, nove argenti, quattro bronzi. Come ricorda Riccardo Rimondi in un densissimo articolo su Ultimo Uomo:
È il bottino più ricco di sempre in un campionato continentale. Sono state ottenute le stesse medaglie racimolate complessivamente nelle tre precedenti edizioni.
Ogni serata della manifestazione romana è stata una serata da favola. Scegliere la notte preferita tra quella del sabato, martedì o mercoledì è come chiedere se vuoi più bene a mamma o a papà.
Il click: Gimbo, Marcell e i loro amici
È raro che la causa delle cose che succedono nelle nostre vite possa risalire a un solo momento preciso nel tempo e nello spazio. Per quanto ci sforziamo di semplificare, c’è un gomitolo di concause, c’è una scala di grigi nel mezzo: chiamate pure questa cosa come vi pare.
Lo sport (giocato) è tanto bello quanto crudele perché al suo livello principale (che è l’unico a contare, vi diranno i più pragmatici) non risponde a queste logiche. In quel microcosmo semplificato che è il campo da gioco descrivere le cose che succedono a un livello più epidermico sarebbe veramente facile come dire bianco o nero. È la natura stessa del meccanismo binario che regola gli output della gara. Se l’unica condizione necessaria non è soddisfatta, mi dispiace per te, non ce l’hai fatta: sei il primo? sei colui o colei che ha segnato più punti? = TRUE, allora sei il vincitore, ELSE = FALSE, hai perso. Per non sminuire in toto la manica di umanità che non ce l’ha fatta - che è e sarà sempre la maggior parte - sia lodata la nostra capacità di contestualizzare.
Il nostro antidoto è rifugiarci in alcune escamotage narrative: analisi tecniche, tattiche, storiche, biografiche. A me, come a molti, piace fantasticare sulle sliding doors. Le storie di grandi atleti che non ce l’hanno fatta hanno una dignità pari a quella dei campioni, perché per legarle, per dargli importanza basta avvincerle entro una cosa semplice come un periodo ipotetico. I confini diventano più labili, chi vince è messo davanti alla caducità dei suoi mezzi; chi perde riacquista una vacua speranza. E se… E se la palla fosse andata di là dalla riga, dalla rete; e se invece che girare sul ferro e uscire quel tiro avesse girato sul ferro per poi incontrare il cotone della retina; e se quello si fosse alzato mettendo giù prima il sinistro del destro.
A farla così semplice, le 24 medaglie di Roma, la nazionale italiana di atletica più forte di sempre, le speranze più che rosee in vista di Parigi dipendono tutte da un singolo momento, nel tempo e nello spazio.
È tutto cominciato a Tokyo, la notte del 1 agosto 2021. Era domenica sera. Ovviamente era domenica sera in Giappone. Da noi, a diecimila chilometri di distanza e a sette ore di fuso, era il primo pomeriggio di una domenica di agosto (il più caldo di sempre fino a quel momento), con le mascherine, l’odore dell’Amuchina sulle mani umidicce e sudate; nel mio caso, ai bagni al mare. Dopo tutto quello che è successo nei sedici mesi precedenti è una flebile parvenza di normalità in un’estate in cui di normale non c’è proprio niente - ve la ricordate l’intervista degli inglesi in carenza di pastasciutta di Chiellini e Bonucci? Arrivo in spiaggia in tempo per il caffè e per gli ultimi salti di Gianmarco Tamberi: la parte centrale della gara usciva dagli speaker della mia auto, riportata con minuzia da Radio 1.
Quando riprendo il filo, sono rimasti due atleti in gara. Barshim, Quatar; Tamberi, Italia. Niente, l’asta non sta su. Un commissario richiama a sé gli atleti, borbotta qualcosa. «Si va agli spareggi?»; «Abbassano l’asta e si sfidano all’ultimo salto come se fosse una gara di rigori? O una partita a fulmine, a basket?». Nessuno, nella sonnolenza di una domenica pomeriggio di agosto, capisce cosa stia succedendo.
Poi il qatarino tende la mano a Gimbo: gli dice «History my friend». Tamberi sgrana gli occhi, afferra la mano e con un salto è tra le sue braccia.
Oro olimpico, ex aequo. Abbiamo tutti negli occhi l’immagine di Tamberi che piange ricordando il dramma del tendine d’Achille che gli ha rubato Rio 2016, la paura del COVID che gli avrebbe potuto togliere non l’unico treno della sua carriera olimpica, ma sicuramente il più scintillante - visto il fiore della maturità atletica.
Dal mare sale su fino sotto alla pineta di Marina di Ravenna, a ridosso degli stabilimenti, un vento d’estate carico di sale e di caldo invita alla siesta. Intanto non so quale nume dello sport, quale dio, quale padre, quale entità ha fatto partire un timer invisibile: dieci minuti tra il vigoroso abbraccio tra Gimbo e Barshim e il primo oro della serata e la finale dei 100 metri.
C’è una maglia azzurra: Marcel Lamont Jacobs. Segni particolari? Quando sulla solare falsa partenza di Zharnel Huges tutti e sei gli atleti che condividevano con lui la pista si sono gettati fuori dai blocchi, in preda al panico, Jacobs è l’unico che resta immobile. Un enorme camaleonte rannicchiato sulle zampe anteriori.
E poi la partenza, quella vera: tutto buono. Dopo i primi cinque o sei passi siamo già pronti a mandare già le braccia all’aria, mentre il nostro camaleonte in tutina azzurra viene risucchiato nel vortice: quello dei favoriti, Su, Kerley e De Grasse.
E invece: una litania si alza dagli speaker della tv «Jacobs e Kerley, Jacobs e Kerley, Jacobs e Kerley» (dal minuto 5.20 nel video).
In dieci secondi viviamo l’intero spettro delle emozioni umane. La rassegnazione, la speranza, la furia agonistica e infine la gioia. Dopo 9 secondi e 8 decimi Marcel Jacobs è tra le braccia di Gianmarco Tamberi, che lo aspetta imbandierato nella prossimità della pedana del salto in lungo, sulla curva che i velocisti utilizzano per decelerare. In spiaggia è una festa collettiva, stiamo tutti urlando, increduli: l’uomo più veloce al mondo è italiano.
Sono passati dieci minuti: e l’Italia dell’atletica ha due medaglie d’oro. Sì, è una sliding door; sì, c’è un prima e un dopo quei 600 secondi. È un dopo che nei suoi risvolti più immediati, non tarda ad arrivare: bastano quattro giorni e nello stesso luogo, alla stessa ora, lo stesso uomo dei 100 metri in compagnia di Lorenzo Patta, Fausto Desalu e Filippo Tortu mette la ciliegia sulla torta di un olimpiade storica: è oro nella staffetta 4x100 metri. La rimonta è, per uno strano scherzo del destino, proprio sui britannici di Zharnel Huges (ricordate? quello della falsa partenza nella finale dei 100 metri). I meme della pastasciutta tornano improvvisamente di moda, in un pomeriggio infrasettimanale di agosto.
Nel frattempo, nella marcia venti chilometri maschile e femminile, Massimo Stano e Antonella Palmisano facevano quattro, e poi cinque ori.
Sono i nostri pomeriggi magici: è la prefigurazione di una bomba ad orologeria che sta per esplodere.
Cosa è successo?
Fuori dalla pista le cose non sono così bianche o così nere. Il lavoro e la programmazione sono le gelatine (termine tecnico) che stemperano la luce bianca dei successi sui luminosi palcoscenici mondiali, olimpici ed europei.
Alle spalle degli atleti e delle atlete italiane forti, che abbiamo scoperto e stiamo scoprendo in questi giorni c’è un sistema solido. Dal 2018 a capo della macchina della FIDAL c’è un nuovo direttore tecnico, Antonio La Torre. Il comparto atletica è stato bravo a capitalizzare la ridente missione di Tokyo: anche, e non è secondario, da un punto di vista mediatico.
Le punte di diamante, Jacobs e Tamberi si sono immolate sull’altare dei click fotografici, e della mondanità: a loro completa discolpa va detto che ne sono usciti illesi, e per gli anni a venire, fino alle gare di Roma, hanno sempre ben figurato nelle proprie competizioni. Di fatto, non sono a conoscenza di particolari scandali o vicende extra sportive compromettenti che potrebbero aver minato la figura di questi sportivi. Il massimo della trasgressione è, semmai, di dubbio gusto, ma la si perdona volentieri: Jacobs sulle nocche davanti alle monoposto di Formula 1 prima della partenza del Gran Premio di Monza, e Tamberi all’All Star Game di NBA tra schiacciate e gag.
Abbiamo due figure di punta estremamente riconoscibili, ma mature e pronte a guidare il movimento. Il loro apporto è stato unico e indispensabile, se è vero che Jacobs e Tamberi (che è il capitano della nazionale di atletica) sono stati in grado di:
Mettere in mostra il movimento senza mai essere sopra le righe, attirando attenzione e nuovi atleti;
Permettere ai più giovani di lavorare in pace, con poca pressione mediatica.
Il risultato perfetto è l’europeo di Roma 2024. Va bene, va bene, come ricorda sempre Riccardo Rimondi su Ultimo Uomo
Bisogna tenere i piedi per terra e ricordare due aspetti. Primo, spesso chi gioca in casa rende e raccoglie più del suo valore. Secondo, gli Europei disputati negli anni olimpici sono una tradizione relativamente recente: risalgono al 2012 e hanno un tasso tecnico di solito inferiore a quelli svolti a metà strada tra le due competizioni a cinque cerchi, per via delle assenze e dei campioni presenti a mezzo servizio. Quest’anno, però, c’è da dire che il livello non era così basso, tutt’altro.
Battocletti, Crippa e gli ostacolisti
L’emozione è tornare a casa dal lavoro, dalla palestra, dalle corse e trovare la TV accesa sulle imprese degli atleti e delle atlete italiane. È vedere una generazione di atleti e atlete fortissimi, come Nadia Battocletti che si impone su 5 e 10 mila metri piani, arrivando al traguardo con una scioltezza disarmante, al termine di due gare gestite alla perfezione, controllando gli spunti delle avversarie e attaccando con vigoria nei momenti giusti. Battocletti è trentina, come è trentino Yeman Crippa, non nuovo su questi canali: vincitore con un sorrisone a trentasei denti di una mezza maratona passeggiata, verrebbe voglia di dire guardando la serenità con cui arriva al traguardo. A qualche settimana da una maratona tanti allenatori consigliano di cimentarsi su una mezza, per testare il passo e prendere confidenza con il clima gara: per la verità, Yeman una Maratone importante in vista ce l’ha, quella olimpica. Il biglietto da visita è buono. Dietro di lui, Pietro Riva si prende secondo posto e mezzo cazziatone per il salutino con la mano destra ad Amanal Petros, tedesco, durante il sorpasso sul rettilineo finale. «Foga del momento», si giustifica Riva, che poi si scusa con Petros, di cui si dichiara estimatore.
È l’emozione di esaltarsi per un bronzo al fotofinish con Pietro Arese, nella gara in cui si corre per il secondo posto, visto che là davanti c’è il più forte di tutti. Jakob Ingebrigtsen, che fa filotto e si prende il secondo oro del suo europeo (terza volta che fa doppietta 1500 e 5000 metri) - la vera medaglia di Arese è stata quella di far sciogliere Jakob, non esattamente un mostro dal cuore coccoloso, che si è cimentato in una prova difficilissima di abbracci e parole al miele per il nostro atleta. Dalla Norvegia alla Norvegia, un altro italiano che guarda da dietro un norreno troppo forte per tutti è Alessandro Sibilio, argento nella 400 metri a ostacoli. Il norvegese in questione è Karsten Warholm: che, se già non fosse praticamente il più forte ostacolista in circolazione (e forse della storia), già solo per il nome da mostro della letteratura scandinava (Krasten e quell’assonanza con Kraken…) incuterebbe timore a qualsiasi avversario. L’ostacolista che non guarda la schiena di nessuno e con il suo cappello di paglia da Rubber di One Piece con il Kraken al massimo ci fa il polipo con le patate è Lorenzo Simonelli: oro nei 110 ostacoli, sabato 8 giugno, la prima vera notte magica dell’atletica agli europei.
Noi siamo pura velocità
È vedere i capelli fucsia di Zaynab Dosso che come un’onda magica, una vela aerodinamica, portano il miglior tempo italiano di sempre nei 100 metri femminili a 11 e 01. È la riconferma di Jacobs sui 100 metri maschili: perché Marcell è una sicurezza, è la sicurezza che il treno arriverà in orario in un paese magico e inesistente, in un’utopia in cui tutto funziona sempre al meglio. E l’argento di Chituru Ali, 25 anni, a 10 e 05 è, se vogliamo, ancora più bello: è il treno successivo, quello che ti tranquillizza perché sai che se il primo per caso lo perdi perché ti fermi a chiacchierare al bar dopo la colazione, tre centesimi di secondo dopo ne arriva un altro.
Sono i ragazzi della 4x400 messi alle strette dal ritiro all’ultimo di Sibillio, che si intascano un argento di cattiveria, come la corsa rabbiosa di Edoardo Scotti (ultimo frazionista in 44 e 46!!), l’eleganza strafottente di un quattrocentista purosangue, per vocazione come Luca Sito, l’entusiasmo contagioso di Vladimir Aceti, l’encomiabile sforzo emotivo del sostituto: Riccardo Meli, il più emozionato dei quattro.
Le serate del presidente
Sono le serate di Mattarella che si diverte in tribuna. Martedì 11 parte con il Gimbo Show: per mio gusto personale - non riesco a trattenermi - Tamberi va sopra le righe quel tanto che basta a farti passare da «signori, che carisma!» a «meh». Ma a Gimbo, in fondo, riesco a perdonarlo: perché è il più forte - anche se a volte sembra dare l’impressione (solo quella) di dimenticarlo, come quando battibecca con l’onesta misura di 2.29 che per una medaglia d’oro olimpica dovrebbe essere normale amministrazione. Poi a gara conclusa, a oro archiviato, sketch gore con finta di infortunio finito male non per colpa sua ma per una regia televisiva non collaborativa sui tempi tecnici, fa cenno di alzare a 2.37 e salta al primo colpo con la semplicità di uno showman che ripete il suo numero per la milionesima volta. Ma che gli devi dire?
La seconda serata di Mattarella, il mercoledì conclusivo, è quella della storia di un’altra atleta in pedana con le spalle al muro. Larissa Iapichino è fuori dal podio del salto in lungo per un centimetro. Ora, pensate al concetto di un centimetro: a quanto è maneggiabile, a quanto è ben figurabile nelle nostre menti finite e limitate. Quante cose di un centimetro effimere, piccole, inutili vi vengono in mente? Troppe. Per questo rapportare un centimetro ai sei metri e novantadue che servono a Larissa per arrivare sul podio è ancora più incredibile: basta così poco, eppure è una distanza così ampia che solo a pensarci mi viene il mal di testa. Lei fa sei metri e novantaquattro. Ma ci rendiamo conto? In sei metri e novantaquattro io ci sto steso per il lungo praticamente quattro volte se mi taglio i capelli.
No, non c’è nulla di normale in quello che fanno questi atleti e queste atlete. No, nella tua giornata migliore non andresti vicino all’ultimo atleta in batteria neanche se avesse messo giù dal letto il famoso piede sinistro prima del destro.
Fa bene ricordarlo, così come fa bene ricordare la loro normalità, questa sì, di persone: educati, gentili, poche parole, mai fuori posto. Delle volte mi viene solo da imprecare: santo cielo, se il movimento in Italia fosse supportato con un rinnovamento delle strutture, dalla pervasività capillare nelle scuole, nel dare la possibilità a tecnici bravi, preparati e giovani di lavorare con ragazzi e ragazze non scoraggiati dal sistema scolastico nell’intraprendere la loro carriera sportiva, ma supportati con gli adeguati mezzi didattici per vivere serenamente il loro sviluppo atletico e umano, che movimento meraviglioso potremmo vantare?
Intanto, ci godiamo il nostro qualcosa che si è smosso: ci godiamo persino i coach italici su Twitter che, in tempi di abbondanza, discutono sugli staffettisti per la 4x100 metri - «Ma perché non Desalu?»; «Ma non puoi togliere Patta, il re dei cambi!», «Melluzzo o Ali?»; «Che fine ha fatto Simonelli?»
Non c’è spazio e non ho la capacità tecnica, né la lucidità di parlare con cognizione di tutte le medaglie - ci sono gli ori di Sara Fantini al lancio del martello, quello di Leonardo Fabbri al lancio del peso, la pioggia di medaglie nella marcia 20 chilometri maschile e femminile (con la campionessa olimpica Antonella Palmisano e l’argento di Valentina Trapletti; e il bronzo di Francesco Fortunato), l’argento nel salto in lungo maschile con il diciannovenne Mattia Furlani, il bronzo di Tecuceanu negli 800 metri. Persino il quarto posto con record italiano nella 4x400 metri femminile è stato un successo bellissimo di una rassegna meravigliosa, che ha contribuito a cementare il rapporto tra la nazionale e il proprio pubblico.
E ora, via verso Parigi.
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Scorsa settimana è uscita la quinta puntata del mio podcast Storie di Corsa.
1:59:59. Il racconto della rivalità impossibile tra Eliud Kipchoge e Kelvin Kiptum, con vista olimpiadi di Parigi 2024. Un racconto emozionante: spero di essere stato in grado di restituirvi la stessa emozione.
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