Il mantra «La vita comincia fuori dalla comfort zone» ho cominciato a recitarlo nel 2020, in periodo di pandemia, di primo lockdown.
Le giornate passavano a risolvere il cubo di Rubik, a leggere sul terrazzo mentre la primavera sbocciava; erano i tempi dei decreti legge, del ce la faremo, delle ultime lezioni all’Università.
Ne usciremo migliori. I video virali degli applausi sui balconi delle città. Troppo presto per far polemica sulla campagna vaccinale, troppo presto per credere che un evento così incredibile avrebbe potuto avere una fine.
Troppo tardi per continuare a ridere di Morgan e Bugo a Sanremo.
In effetti, per un momento ho pensato fosse possibile: «Ne uscirò migliore».
Paradossalmente, mentre fuori imperversava la pandemia e si avverava mai come allora nella Storia la sartriana proposizione - L’Inferno sono gli altri - nel culmine del mio essere in comfort zone cominciavo la mia crociata contro la comfort zone.
Gli algoritmi YouTube, oggi come allora, sono abilissimi a propinare self-help dei più spiccioli alle aride mente dei digitalmente sovraesposti giovini mutilati nello spirito e nella mente dal vociare di un’intellighenzia che gridava loro dai salotti TV (ognuno stava nel salotto di casa sua) “Basta lamentarvi, c’è chi sta peggio, c’è chi è stato peggio”.
L’escalation di questa retorica basata sulla classifica a chi vive le vite peggiori ha avuto un ruolo a definire la mia concezione di comfort zone, insieme ai sopraccitati video YouTube di tizi americani più o meno qualificati nella loro posizione da motivatori.
“Yeah you know, i più grandi businessman si svegliano alle 3 del mattino, hanno il loro giornale della gratitudine, meditano, fanno la doccia ghiacciata (perché fa bene alla forza di volontà), bevono caffè con tre gocce di latte di mandorla, praticano attività sportiva, ti ascoltano guardandoti fisso negli occhi e ricordano tutto quello che leggono. You should try and be like them”.
Procedono a venderti il loro corso da zero a CEO. Corso che tutti i miei contatti su LinkedIn hanno acquistato, perché onestamente credo di essere nel 2,2% di utenti italiani che alla veneranda età di 26 anni non è CEO di nulla. Vergogna!
Ho cominciato con quello che avevo: fare la doccia fredda ogni mattina. E infatti, ogni mattina per un mese ho sottoposto il mio corpo a un numero sempre crescente di minuti sotto l’acqua gelata - che vi dirò, non era una brutta sensazione una volta usciti, ma era (è?) qualcosa di… superfluo.
Avevo trovato una serie di motivazioni scientifiche a sostenere il mio gesto, specie agli occhi di chi condivideva la casa con me (che sarebbe poi la mia famiglia). L’andazzo e la sicumera con cui uscivo dalla doccia fredda ogni mattina (a mia detta sempre più lucido e focalizzato) stavano arrivando a livelli insopportabili.
Quando ho cominciato a correre, alla fine di quell’anno, l’uscita dalla comfort zone ha preso una piega diversa. Per le prime due settimane uscire a correre era letteralmente uscire dalla zona di comfort.
Poi, attestato e appurato che sì, correre è una cosa che mi piace fare e non mi costa fatica, il numero sempre crescente di kilometri da percorrere per arrivare a obiettivi sempre più ambiziosi ha cominciato a rappresentare l’uscita dalla mia zona di comfort.
Uscire da questa mistica area grigia di inedia, tedio, nullafacenza, ha rappresentato uno degli obiettivi più assolutamente cruciali della mia esistenza per un periodo di tempo abbastanza consistente.
Sono stato ossessionato - sì, ossessionato - dall’idea di dover dimostrare quanto potessi sguazzare nel ph acido dell’esistenza, là dove nessuno ti regala nulla, la dove non ci sei tagliato e invece devi dimostrare che sì, ci puoi stare.
Una mistica delle cose difficili portata allo stremo. Che ha finito per logorarmi, da una parte, ma anche - va dato alla CZ quello che è della CZ - ha contribuito a portarmi ad apprezzare quello che ho, che ho guadagnato e che ora cerco di godermi.
Quindi? Cosa ho imparato da queste avventure al di fuori della zona di comfort?
Innanzitutto, che la zona di comfort non è qualcosa di negativo in assoluto.
Partiamo da un approccio scientifico. Dopo aver letto il libro-saggio-capolavoro di Jared Diamonds Armi, acciaio e malattie voglio spezzare una lancia a favore della zona di comfort. Dai tempi in cui i malnutriti più grandi uomini scimmia del Pleistocene se ne andavano a zonzo a cacciare per kilometri e kilometri le bestie più strane per mettere sotto i denti qualcosa, di tempo ne è passato.
Il progresso tecnologico, dalla scoperta/invenzione/esponenziale crescita dell’agricoltura agli OGM, dalla ruota ai miracoli dell’ingegneria contemporanea, ha notevolmente espanso quello che oggi possiamo considerare zona di comfort. E noi che facciamo? Ce lo godiamo, giustamente - con le modificazioni biologiche che questo comporterà, ma tant’è.
In effetti, stiamo trovando qualsiasi mezzo a nostra disposizione per fare economia di energie fisiche e mentali - e anche questo sottotesto nasconde dei rischi.
Con un approccio meno scientifico, se la zona di comfort è laddove ci si riposa, si fa mente locale, si riordinano le fila della propria vita, anche da un punto di vista pratico, credo che lo stato di calma a cui sottopone la routine, essendo la routine quel per nulla epico momento in cui si tirano le fila e ci si prepara a fare qualcosa di epico, sia non solo utile, ma necessario.
Rispettare il mio corpo, dandogli riposo, tempo di rigenerarsi nella comfort zone rappresenta una delle decisioni più sagge che abbia mai deciso di prendere.
Allo stesso modo, da un punto di vista mentale dare spazio a momenti di pausa dalla ricerca costante di una sfida contro me stesso ha avuto effetti benefici, da subito.
Darmi tempo per guardare o riguardare quella serie TV, invece che passare sette sere su sette a studiare; leggere un libro di fantasia, un romanzo, invece che un paper scientifico. Tutto questo ha contribuito a migliorare il mio benessere.
In conclusione. Una capatina fuori dalla comfort zone sarebbe sempre bene farla, con cadenza più o meno regolare, perché solo sguazzando in questo famoso ph acido delle cose che non si sanno fare si fa il callo, si impara ad imparare come gestire conoscenze, difficoltà, scogli.
All’intero di essa si può imparare, invece, a metabolizzare, a fare mente locale, a ricaricarsi.