🏃🏻♂️🏃🏻♂️ Buongiorno e buona domenica a tutte e tutti.
Nel breve iato tra la fine di gennaio e l’inizio del festival di Sanremo, l’agorà pubblica è stata largamente invasa dai discorsi attorno a uno sport di cui abbiamo cominciato a ricordarci sempre più spesso: il tennis.
Abbiamo cominciato ad interessarci a questa disciplina perché uno strano allineamento degli astri ha assegnato all’Italia uno dei talenti generazionali più forti in circolazione
E quindi, l’uomo di stirpe italica potrà mai esimersi dall’aggiungere ai suoi expertise in tasse, diritto penale, calcio, fantacalcio, musica leggera, cinema, motori, scienza delle costruzioni, la conoscenza del tennis?
Ma certo che no!
E quindi, mentre uno Jannik Sinner fresco di primo slam agli Australian Open si barcamena tra i consigli di vita da chi la sa lunga e gli «eh ma al festival, caro Jannik, dovevi andarci» - perché è un fatto inaccettabile che lo sportivo italiano del momento abbia molto poco italicamente declinato gli inviti ai riflettori di Sanremo: e cioè l’esposizione alla patinata luce di un contesto da cui si sente totalmente distante e a cui la sua partecipazione apporterebbe nulla - io cerco di raccontare un aspetto peculiare della finale: che ha poco a che fare con Sinner, e più con le lezioni che lo sport ci sa dare.
Il mondo dei cliché
Ho deciso di raccontare la mia vita attraverso lo sport.
Lo sport, a sua volta, racconta sé stesso attraverso una serie di cliché.
Il calcio e il basket ci hanno abituato all’idea che la migliore difesa è l’attacco. Oppure, ancora, che l'attacco vende i biglietti, la difesa vince il campionato.
Per non parlare del nuoto: lo sport più completo.
Ma il cliché di cui voglio parlare oggi è quello che lega il tennis alla corsa.
Mentre la mattina del 28 gennaio 2024 (una domenica solitaria e silenziosa) guardavo la Storia dello sport italiano che si faceva davanti ai miei occhi - durante la finale dell’Australian Open - la testa è andata lì, ai luoghi comuni e le frasi un po’ rimasticate con cui raccontiamo le varie discipline per incasellarle all’interno dei nostri limitati orizzonti mentali.
Ebbene, questo è il tennis:
Uno sport mentale
Ammetto che a passare a me, e credo a larghissima parte della popolazione mondiale, questo modo peculiare di vedere il tennis è la testa più famosa del panorama editoriale mondiale: Andre Agassi.
Nella fortunatissima autobiografia del super talento di Las Vegas - tra i cinque uomini a vincere tutti e quattro i titoli degli slam, a cui aggiunge l’oro olimpico - Open (edito da Einaudi in Italia), sono praticamente sterminati i riferimenti al peso della mente nella definizione degli equilibri all’interno di un match di tennis.
E mentre vedevamo Daniil Medvedev prendere a sassate Jannik Sinner nei primi due set, sapevamo che non era finita. Perché i mezzi atletici del nostro sono indubitabilmente fuori dal comune: e perché il tennis è uno sport mentale, e la partita di tennis è un organismo vivente, che vive e si evolve come alimentato dalle energie interiori degli atleti in competizione.
D’altra parte, c’è un passaggio nella conferenza stampa post partita di Medvedev in cui il russo sconfitto da Sinner conferma quest’assunto:
Dopo il secondo set qualcosa è cambiato, l’inerzia si è spostata su Jannik. Ho provato a dirmi che va tutto bene, a cercare di dire alla mia mente che ce la potevo fare, perché questo è il tennis, in fondo. Non ce l’ho fatta, e questo è il motivo per il quale Jannik stringe il trofeo.
Cosa c’entra con la corsa?
Che la corsa e il tennis fossero parenti lo insinuava in qualche modo anche Agassi. Innanzitutto, sono sport a cui si associa l’idea di solitudine - anche se a detta dell’autore di Open il tennis è ancora più solitario della corsa (nella gara di chi è più solo, Ian Thorpe rivendicava la solitudine del nuotatore in corsia, tra i motivi che lo hanno spinto a interrompere bruscamente la sua carriera).
In secondo luogo, quando parliamo di corsa, di maratone, di ultramaratone, non parliamo forse di uno sport mentale? Quante volte l’ho sentito e l’ho detto: «arrivati a un certo punto della gara, è solo mentale». La testa comincia a lanciare messaggi negativi? Le gambe si fermano. La testa si riprende? Le gambe girano. Chiunque abbia corso almeno una volta una distanza superiore ai 10 kilometri sa ciò a cui mi riferisco.
Il controllo mentale da imporre a sé stessi quando, durante il tempo di una gara, le cose si mettono male per cercare di raddrizzarle attraverso la potenza del pensiero, non è lo stesso tipo di strategia adottata da un tennista per ribaltare, o confermare l’inerzia di un match?
Ma esiste anche un terzo fattore che lega questi sport.
Il tempo dello sport
La dimensione cronologica è un elemento che il tennis e la corsa su lunga distanza condividono: le partite, come le gare sono eventi che mediamente durano tanto tempo.
Il tempo è una variabile strana. È una costante, certo, ma in alcuni contesti - come quello di una gara di corsa o di un match a tennis - il suo passaggio sembra inverare ciò che Eraclito diceva a proposito dell’immersione nel fiume.
Non puoi entrare due volte nello stesso fiume, perché l’acqua che ti ha bagnato la prima volta se n’è già scivolata via. Eppure il fiume sembra sempre lo stesso.
Il grande paradosso di eventi sportivi così lunghi è che l’innesco che mette in moto un cambiamento che risulterà in una vittoria, o in una sconfitta, si attiva in frazioni di secondi. Letteralmente episodi.
Nel giro di un game si può ribaltare l’intero equilibrio di una partita: si entra nel punto in un modo, e quando il punto è finito si è persone diversi. Si comincia un kilometro con una attitudine mentale: e se ne esce totalmente stravolti.
Il campione è colui che è più bravo nel gesto specifico? O è chi sa leggere e processare con maggiore velocità e più profondità nello spettro del tempo futuro i momenti di una gara/partita?
Il mondo che si sgretola
Da qui in poi, voglio concentrarmi sul grande comprimario dell’impresa di Sinner: Daniil Medvedev.
Lo confesso: per il tempo immediatamente successivo alla finale, pur gustando la gioia per il trionfo di Sinner, non ho fatto che pensare allo stato mentale di Medvedev.
Ho provato a razionalizzare la sua frustrazione, il suo sconforto, lo stato di composta angoscia mista a disperazione nel vedere che quello per cui aveva lottato si stava sgretolando sotto ai suoi occhi, letteralmente tra le sue mani.
Ho attinto al mio bel bagaglio di delusioni sportive, provando a rapportarle a quello che deve avere provato Medvedev. È inutile dire che lo sforzo è stato vano, e la mia conclusione è che nulla di quello che prova un amatore può avvicinarsi alla delusione che deve provare un professionista.
Medvedev è uno che conosce bene l’idea secondo cui nel giro di un game, o anche di un punto, si possa ribaltare l’inerzia di un match che non aspetta che un’ovvia conclusione. Ero davanti alla tv due anni fa, quando il russo perdeva la sua seconda finale dell’Australian Open contro Nadal (dieci anni più anziano di lui), sciupando un vantaggio di due set a zero.
Quella singola sconfitta, per stessa ammissione dell’atleta russo è stata una mazzata, che ha compromesso l’intera stagione successiva, «La peggiore della mia carriera».
Per dare un’idea, il punteggio entro cui è maturata la sconfitta è questo:
Un bell’articolo di Emanuele Atturo sull’Ultimo Uomo (link in fondo alla puntata) racconta molto meglio di come potrei mai fare io le abilità tennistiche di Daniil Medvedev: un tentacolare freak di due metri, con la capacità di sopperire alla mancanza di un talento purissimo attraverso un atletismo di prima classe e un innato spirito di adattamento alle caratteristiche degli avversari e manipolazione (anche mentale) del match.
Dopo aver raccontato del tentativo estremo da parte di Medvedev di aggrapparsi con le unghie e con i denti all’idea mentale di poter vincere la partita nonostante la tanica delle energie fosse ormai svuotata (il russo ha passato in campo più di 24 ore di gioco durante il torneo, sei in più di quelle passate da Sinner, comprensive di una rimonta da 2-0 a 3-2 in semifinale), Atturo aggiunge:
E nonostante in Italia molti di noi tifassero Sinner, è stata dura vederlo [Medvedev] perdere così: spendere tutta la propria forza, tutta la propria intelligenza, dare tutto quello che si è in grado di dare, e poi scoprire che non è abbastanza.
Elogio dello sconfitto
Ho visto la conferenza stampa post partita di Medvedev. Un capolavoro, da mostrare nelle scuole. Trovate, come al solito, il link a fine episodio: sono diciotto minuti che volano, e che vi consiglio di vedere.
La lezione di Medvedev è semplice, ma estremamente potente: che ci si creda o no, si va avanti. In qualche modo ci si rialza anche da questo.
C’è tutto: acume, emotività, intelligenza, spirito, un costante sorriso di serenità a stirargli gli angoli della bocca.
È raro vedere uno sportivo ai massimi livelli così a proprio agio davanti ai microfoni; ancora più raro vedere un atleta sconfitto in una delle partite più importanti della propria carriera prestarsi con garbo, sarcasmo e lucidità alle domande dei giornalisti, analizzando la propria partita, e il proprio torneo in maniera pacata e obiettiva.
Questa intervista ha delineato il profilo di uno sportivo d’élite che può insegnare qualcosa anche a noi poverə amatorə praticanti uno sport diversissimo dal tennis come la corsa.
Ad esempio, ci può insegnare che è bello fare il proprio lavoro con serietà, che è giusto guardare con lucido distacco a quello che ci capita per trarne insegnamento, che è necessario esercitare più spesso la gratitudine - perché è pur sempre meglio perdere una finale, che uscire in semifinale (che è una rivisitazione di i rigori li sbaglia solo chi li calcia) - e che è un onore misurarsi con avversari di cui si riconosce la grandezza.
Insomma, Medvedev mostra che il passaggio fondamentale per essere grandi sportivi è saper processare la sconfitta, dandole il giusto peso, limitandone gli impatti potenzialmente deleteri sulla mente, e inserendola all’interno di un discorso che la elevi a passaggio fondamentale per la vita di ognunə di noi, nell’attesa del nostro momento.
Tra la miriade di esempi grotteschi di sportivi di grande intelligenza circoscritta all’applicazione sul campo del proprio talento, ma di scarsa lucidità, capacità di analisi e autocritica, Daniil Medvedev ci offre una masterclass oggi più che mai fondamentale sulla gestione della sconfitta.
Il sorrisetto spensierato con cui Medvedev ha condotto tutta l’intervista mi ricorda il sorriso di Joshua Cheptegei dopo la debacle alla maratona di Valencia.
«È andata così, ora c’è da lavorare perché sono sicuro che tornerò più forte».
Chiudo riscrivendo quanto già affermato su Cheptegei a dicembre:
Joshua Cheptegei e Daniil Medvedev ci ricordano che siamo di fronte a una generazione di atlete e atleti non solo fenomenali, ma anche “gentili”, nel senso più medievale del termine: un volto umano che manca da tanto tempo nel mainstream dei campioni di sport più ricchi e blasonati. Che sa guardare al fallimento come opportunità di crescita e che vive il successo con la gioia e il distacco che merita.
L’articolo di Emanuele Atturo
Lo leggi qui.
L’intervista post partita a Daniil Medvedev
La vedi qui.
Qui invece leggi una bella puntata di
sul trionfo di Sinner, un campione la cui attitudine al lavoro sfugge alla comprensione di tante e tanti italiani, così come Sinner stesso sfugge a teatrini che ontologicamente non lo riguardano.🏃🏻♂️ Ti è piaciuta A cosa penso quando corro?
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