La scelta [versione completa]
Finisce la prima settimana dell'anno: una settimana dominata dall'incombenza di una domanda. Fare quello che è facile o fare quello che è giusto?
Questa mattina parte di A cosa penso quando corro? è stata censurata ed è stata inviata una versione che in realtà era già stata ampiamente rivista. In via del tutto eccezionale, solo per oggi, riceverai due mail. Questa mail è la versione corretta.
Ho speso i primi giorni del 2023 a fare alcune di quelle cose che devo fare perché è così e basta. Questa lista include cose tipo cercare alloggio in Toscana, visto che passerò lì i prossimi 3 mesi della mia esistenza; prepararmi al meglio per cominciare il mio nuovo lavoro; disfare l’albero di Natale (lo so, è sempre la cosa più triste).
Ho passato parte del mio tempo, invece, a fare cose che devo fare non per un’imposizione delle circostanze, ma per la sola mia volontà di arrivare a raggiungere un determinato risultato.
Tipo cosa? Tipo correre.
Da circa una settimana è iniziata ufficialmente la preparazione alla maratona di Parigi 2023. Mancano 84 giorni, o 12 settimane: dopo un breve calcolo si evince che con una media di 4 allenamenti settimanali, si possono stimare circa 48 sessioni di corsa da qui al main event.
Calcoli a parte, credo di aver trovato una disciplina non dirò ferrea, ma semplicemente quadrata e consapevole nel fare quello che mi piace fare, e che faccio perché voglio farlo.
C’è un però.
Come in tutte le cose, c’è un però. È sempre facile disciplinarsi nel mantenere dritta la barra del proprio timone nel perseguire risultati ambiziosi?
No, non l’ho mai creduto neanche per un istante, nemmeno nei momenti in cui ogni fibra del mio corpo e ogni grammo della mia volontà era perfettamente accordato per portarmi a raggiungere un risultato.
Isoliamo, per ora, il passatempo della corsa: siamo pur sempre su A cosa penso quando corro?, potremmo pur usare la corsa come esempio privilegiato, giusto?
Intenzionalità
Devo però ammetterlo: nonostante tante persone abbiano corso, stiano correndo e correranno una gara da più di 40 kilometri a piedi, applicarsi per raggiungere un risultato sportivo come la conclusione di una maratona - con velleità sportive - non è qualcosa che si decide un mese per l’altro.
Spopolano video YouTube di personaggi che tentano l’impresa di portare a termine una preparazione nel corso di un mese.
Pazzi, certo. Ma dalle gesta di questi pazzi possiamo evincere alcune conclusioni e trarre alcuni spunti di riflessione.
Tutti coloro che si impegnano in un simile proposito finiscono per odiare la corsa, o comunque l’impresa a cui finiscono per dedicarsi.
Non preparare la tua prima maratona (meglio sarebbe dire gara in generale) in un mese.
Perché? O meglio: perché queste persone stanno correndo una maratona?
È proprio con questo terzo punto che arriviamo al cuore della questione.
Con che tipo di ideale, spirito, proposito ci sobbarchiamo imprese, sportive e non sportive? In che tipo di stato mentale siamo nel momento in cui ci impegnamo nel portare a termine propositi sfidanti e avvincenti? Cosa ci comunica la sfida che intendiamo intraprendere, come ci parla, come ci smuove intimamente?
Entra così in gioco un concetto che trovo estremamente affascinante e che ho cercato di fare mio per tutto il corso dello scorso anno: intenzionalità.
Intenzionalità intesa come la straordinaria capacità di ordinare i pensieri, prendere una risoluzione e agire di conseguenza.
Ogni gesto minore teso al raggiungimento di uno scopo maggiore diviene perfettamente agito nell’ottica intenzionale del conseguimento del risultato finale. Nulla è fatto a caso.
E infatti, il concetto contrario di intenzionalità è, semplificando di molto, quello di fare le cose a caso. Fare le cose e non sapere bene neanche perché. È qualcosa che succede molto più spesso di quanto vorremmo. A me capita ogni giorno - non dirò per le famose cose che serve fare - ma anche per cose che ho deciso in coscienza di portare avanti.
Quella di intenzionalità è un’idea che affonda nell’humus della volontà. La volontà di fare, la risoluzione; e quindi la capacità - lucidità - di stabilire cosa sia necessario fare per arrivare al proprio obiettivo.
D’altra parte, tra i più celebri motti dello slancio verso il romantico proposito di volontà, c’è l’immortale frase del più grande tragediografo della tradizione letteraria italica, Vittorio Alfieri, che in un’epistola ci consegna questa lapidaria ode alla volontà:
Volli, volli sempre, e fortissimamente volli
La querelle tra quello che è giusto e quello che è facile si consuma tutta nell’arena dell’intenzionalità: ed è proprio l’intenzione che può fungere da matrice decisionale nello stabilire se un’azione sia opportuna o meno.
I dubbi fanno parte del percorso. Quello che è facile fare? O quello che serve fare per arrivare allo scopo? Cosa devi fare se vuoi arrivare da un punto A a un punto B? Sei disposto a farlo?
Pensare al perché delle proprie azioni, risalire al motore dell’intenzione: è veramente questa l’unica differenza tra il farcela e non farcela?
Ebbene, io voglio correre. Per cui corro. Adoro farlo? Sì. È sempre facile? No. È quello che serve fare se voglio finire quella bendetta gara? Sì.
NB. Non voglio dire che in ogni momento del proprio percorso si debba sapere esattamente cosa si sta facendo, o che le strade impreviste e casuali siano da evitare sempre e comunque. D’altronde, nella vita il tempo dell’otium (quello di Cicerone) è importante quanto quello del negotium, il tempo del lavoro. Io provo a usare il tempo dell’otium per deviare, ispirarmi e perseguire i miei scopi durante il negotium.
Dall-E ci regala questo pensatore di Rodin cubista-futurista che si sta sicuramente chiedendo: quello che è facile o quello che è giusto?