Domenica scorsa alla mia Maratona di Milano 2023 è andato tutto male.
Che poi, già nelle premesse uno poteva aspettarselo. La gara parte sotto i migliori auspici della cancellazione del viaggio a Parigi, dove avrei dovuto correre la mia prima gara su suolo straniero.
E vabbè, soprassiedo: è andata così. Confermo, se può essere motivo di conforto, che a Parigi domenica scorsa pioveva.
A Milano non pioveva. Anzi. Allo start, alle 9 precise - sugli eventi sportivi in Italia tendiamo ad essere molto meticolosi in quanto a orario di partenza - esce fuori un sole piacevole, che spezza un’aria leggermente troppo fresca per il mio solito tank grigio con cui ormai corro qualsiasi gara.
Da buon autoctono milanese - lombardo acquisito - me ne infischio degli orari di convocazione ufficiali che suggeriscono ai maratoneti di presentarsi ai cancelli due ore prima della partenza. Mi ritrovo a Porta Venezia a circa venti minuti dall’inizio.
Non trovo il gate di ingresso alle griglie. Panico. Devo andare in bagno.
Seguono dieci minuti di caos in cui ritrovo finalmente fila e ingressi per entrare in griglia di partenza. Il minuto dopo stavo correndo e mi dimentico che sarei dovuto andare in bagno. Ormai siamo partiti.
Non riesco a pensare, o godermi, lo stato di eccitazione che mi prendono in ogni occasione prima di una gara. Non so se essere dispiaciuto o sollevato dalla cosa.
I primi dieci kilometri sono nervosismo puro. Sono imbottigliato in una griglia di runner che ritengo più lenti di me. Mi ritrovo nella spiacevole situazione di dover superare un sacco di persone. La gara in questa fase è tutta a strappi, accelerazioni, riprese.
Nel mentre, il cordone passa da San Babila, Piazza Duomo - la Madunina benedicente ci guarda sfilare tra due ali di pubblico; poi alla Scala, via su verso il Castello passando dalla Moscova.
E da lì, fuori, verso Washington, City Life. Circumnavigati Isozaki, Libeskind, Hadid, via verso San Siro, Trenno, Bonola. Sulla mia strada verso la periferia, pago gli strappi dei primi dieci kilometri.
Comincio a rallentare. Ricordo perfettamente lo stato mentale in cui mi sono ritrovato: prima angoscia e poi disperazione - in questo incedere a là Kierkegaard. La tentazione di mollare è stata, credo per la prima volta dopo un anno di gare, vera. So che avrei potuto mollare - anzi, so che sono andato vicinissimo dal mollare.
Non so spiegare perché: posso solo riassumere la sensazione in una parola: malessere. Malessere diffuso.
Caldo. Il sole sull’asfalto di Milano mi ha portato a cercare ogni punto di ombra sul percorso.
Mi sono trascinato fino al kilometro 25. Lì, al ristoro, mi sono rovesciato in testa una bottiglia d’acqua e ho fatto l’unica cosa sensata in quel momento. Ho spento il cervello e ho messo il pilota automatico.
E ha funzionato. Ho navigato tranquillamente fino al kilometro 33. A nove kilometri dal traguardo, a solo nove kilometri dal traguardo - mi vedevo già con la medaglia al collo - sento tirare il mio polpaccio sinistro.
Panico. Provo a non pensarci. Dopo la prima, spiacevole, avvisaglia, ecco la seconda terrificante sensazione. Di nuovo, provo a non badarci.
Il dolore sembra affievolirsi mentre giro su Corso Sempione. Mancano sette kilometri. Ai lati delle strade cominciano a radunarsi sempre più runners che camminano. È uno scenario post apocalittico, nel caldo della giornata.
Rimetto il pilota automatico, continuo a superare. Arrivo in qualche modo al kilometro 40. Gli ultimi due kilometri sono infiniti.
Nel vero senso della parola. Non finiscono. Non vedo il traguardo. Il mio orologio - e come il mio quello di tutti gli altri runner - mi dice che sono 500 metri più avanti di quanto dovrei essere.
Passo dopo passo, vedo l’ultima curva, la imbocco e arrivo, anche stavolta.
Lì per lì non sono soddisfatto. E anche a distanza di una settimana: non sono soddisfatto.
Per più motivi.
Mi sono allenato tanto, non ho saltato neanche un allenamento e le sensazioni prima della gara erano buone.
Ho gestito in maniera terribile la gara. Con errori da prima maratona; una prima parte troppo veloce - troppi strappi e riprese. Un disastro.
Sono arrivato al giorno della gara stanco e probabilmente poco concentrato, per più ragioni - il trasloco dalla Toscana a Milano, ad esempio.
Sono debole: non mi sono allenato in palestra, niente pesi. È stata una grande discriminante tra le gare precedenti e questa.
Allo stesso tempo, non farei di tutta la questione una tragedia: sarebbe ingiusto nei confronti di me stesso e di uno sport che non perdona. Ci sono almeno un paio di punti che mi rendono felice e i fanno assaporare l’impresa che, a modo mio, ho compiuto.
La resistenza mentale: la capacità di non mollare nel momento in cui le cose si sono messe peggio dal punto di vista psicologico.
La facilità di corsa nei momenti da pilota automatico: pochi dolori, nessun mal di schiena, solo un passo dopo l’altro.
La lezione finale che ho portato a casa da questa gara è che le condizioni ideali non esistono, e alla fine, anche questa volta il messaggio che doveva arrivare è arrivato: delle volte c’è da ingoiare un panino alla merda.
È meglio sperare che a noi non tocchi mai il nostro morso? O è meglio sperare di essere pronti nel momento in cui il pranzo è servito?
A modo suo, sotto alcuni punti di vista, questa è stata la miglior gara che abbia mai corso. No, non per cose come tempo e performance (la peggiore), no di certo. Ma se un calciatore non si giudica se sbaglia un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un corridore.
Cara corsa, ci vediamo tra due settimane a Madrid, per la mezza maratona della capitale. Poi penseremo a fare mente locale e a capire il da farsi.