Il mostro Uni non ha paura
Qualche settimana fa ho parlato di quello che mi ha insegnato l'Università. Nel frattempo il dibattito è divampato viste le tragiche notizie che continuano ad interessare questa istituzione...
Due settimane fa ricevevate un episodio di A cosa penso quando corro? in cui ho raccontato le tre cose che ho imparato all’Università che si sono poi rivelate utili anche oggi che il settore di studi L-LET-FIL è alle mie spalle.
Lo trovate qui.
Torno a parlare di Unviersità a pochi giorni di distanza dall’ultima volta, scosso da quello che è successo alla studentessa della IULM, trovata suicida qualche giorno fa nei locali universitari. Un biglietto di addio: ho fallito nello studio e nella vita.
Non mi dilungherò sulla vicenda in sé: il web è zeppo di articoli che raccontano la storia del ritrovamento del corpo - in certi casi rasentando la pornografia della morte - provano a gettare luce sul contesto familiare della vittima, elogiano lo slancio di umanità dell’Università che ha interrotto le lezioni in segno di lutto.
Tutti molto bravi - tutti molto falsi, ma ci arriverò.
La questione mi ha toccato profondamente.
Non sono mai stato uno di quelli che ha fatto del 30 sul libretto una questione vitale. Se c’è qualcosa che ho sempre vissuto con saggezza è proprio questo: distaccare il giudizio che di me si può fare un perfetto sconosciuto su un set di conoscenze limitato a una certa disciplina, nell’arco di 20 minuti scarsi, da un eventuale giudizio umano che di me si può fare quella stessa persona.
Certo, ho sempre puntato all’eccellenza laddove sentivo gli argomenti del corso di studi particolarmente miei; per il resto, ho fatto del mio meglio. L’ho sempre ritenuto l’approccio più sano, che mi ha fatto vivere in maniera molto positiva la mia carriera universitaria.
Tuttavia, ho visto e ho conosciuto persone a me care vivere l’idea dell’esame con un’angoscia spaventosa. L’impossibilità di scindere il proprio successo personale, l’idea di valore o non valore umano, da quel voto su scala 1-30.
Sono rabbrividito. Leggendo la notizia sono rabbrividito.
Ma come? Gli stessi giornalisti che hanno incorniciato in qualità di standard di eccellenza e di desiderabilità studenti che a 20 anni sono direttori di dipartimento e studentesse che oltre a essere Nobel per la Fisica a 24 anni fanno vita da influencer, modelle e ballerine ora sprecano fiato, battute e il nostro tempo di lettori con accuse al sistema universitario?
Gli stessi sistemi universitari che, dal canto loro, si fanno belli nell’annoverare schiere di nomi illustri tra i propri professori. Già, nomi illustri. Personaggi che hanno nell’insegnamento universitario niente più che l’arrotondamento mensile di una già ben lauta retribuzione.
Che rispondono a monosillabi; danno per scontato, ridicolizzano domande e dubbi dei loro stessi clienti (concedetemi questo termine, avendo pagato rette cospicue il minimo che possa pretendere è una risposta sensata anche alla domanda più stupida).
Vivono in molti casi nel mondo inaccettabile che li ha condotti alla loro cattedratica dittanza dall’alto dello scranno su cui poggiano. Un mondo di feroce competitività, di lotta, di merito (merito basato su condizioni di partenza totalmente impari e sfavorevoli).
Gli attacchi di panico prima degli esami, le notte insonni: ci sono sempre state, sono normali. Si è sempre fatto così.
E la questione delle scelte che ti trovi a fare da giovanissimo, complici le pressioni di un mondo del lavoro con determinate esigenze, spazi, offerte per un limitatissimo numero di professionalità. In breve: devi scegliere un percorso sapendo esattamente come sarai collocato nel mondo del lavoro una volta uscito. Tra cinque anni.
Balle! Sono tutte balle.
Ma qualcuno si rende conto di quanto tempo siano 5 anni?
In cinque anni che ho passato nell’istituzione ho testimoniato una pandemia globale che ha ridefinito completamente i nostri spazi umani, quattro governi (nel 2015 Renzi era capo di governo con il PD); quando ho iniziato l’Università, nella ricerca Google ancora non c’erano le fotine dei locali quando li cercavi nella barra; gran parte delle pagine web non erano ancora ottimizzate per essere navigate da cellulare.
Cinque anni. Era il 2015.
E c’è veramente chi pretende che ragazzi e ragazze di 19 anni si iscrivano all’Università sapendo come inserirsi professionalmente tre, cinque, sei anni dopo?
C’è veramente chi ha la faccia tosta di piangere e strapparsi le vesti nel momento in cui le pressioni sociali create da questo sistema completamente malato creano ambienti umanamente acidi, tossici, malcontento, depressione? E finanche una preoccupante striscia di suicidi che non possono essere ulteriormente ignorati.
C’è chi si stupisce quando testimonia l’accanimento ossessivo di giovani verso la performance a tutti i costi? A discapito di tutto: salute, rapporti umani, della propria vita.
C’è chi si meraviglia se candidati perfetti sotto tutti i punti di vista, hanno sviluppato competenze umane e soft skills che rasentano lo zero?
Se c’è un ricordo su tutti che porto a cuore dell’Università erano le ore di pausa caffè a chiacchierare con le colleghe e i colleghi in via Zamboni 32, alle macchinette. I discorsi erano i più disparati.
È un concetto che mi piace definire come scienza della macchinetta - laddove in tanti ancora definiscono certe facoltà le Scienze delle Merendine.
Le scienze della macchinetta hanno affinato le mie capacità relazionali, mi hanno insegnato a conversare, a dialogare e… mi hanno dato degli amici e delle amiche. E all’Università, come nella vita, avere amiche e amici è molto bello - oltre che molto utile.
Vogliamo dire una volta per tutte che questo è l’Università, il suo cuore, il suo nocciolo? La contaminazione di idee, il dialogo, prendersi tutto il proprio tempo per stabilire chi cavolo siamo e cosa vogliamo. Tempo per riflettere in maniera ponderata su un percorso che cambia e deve cambiare con noi, perché abbiamo il diritto di cambiare idea.
Questo mi auguro sia il cuore e il ricordo dell’Università. Non la perdita di capelli per un esame, un diffuso stato di angoscia, la perdita della salute. Se no fanno bene i detrattori a prescindere dell’Università (una strana specie di personaggi so-tutto-io, molto divertente dialogare con costoro): chi ve lo fa fare? Chi ve l’ha ordinata tutta questa sofferenza?
Laurearsi con larghissimo anticipo non è la normalità. Così come non lo è laurearsi con largo ritardo. Così come non lo è laurearsi perfettamente in tempo. No, non credo esista una normalità quando si parla di fette di vita così importanti.
C’è chi ha bisogno di tempo per lavorare e pagarsi gli studi in autonomia - ci sono passato, con i lavori estivi negli unici mesi in cui avrei avuto un po’ di tregua dallo studio. C’è chi decide di prendere tempo per vivere l’esperienza a modo suo.
Le deviazioni, i passaggi segreti, i sentieri che non pensavamo di sapere e voler percorrere, quella mezz’ora di studio persa perché attratti dal calore di una libreria in cui stare a sfogliare pagine, senza motivo: è tutto parte di un percorso formativo unico e peculiare.
Se fossimo più indulgenti verso noi stessi e l’unicità irripetibile del nostro vissuto smetteremmo di provare spiacevoli sensazioni come sindrome dell’impostore (ne so qualcosa), complessi di inferiorità vari, senso di inadeguatezza.
Non voglio ritrovarmi a vivere in un mondo infestato dalla miopia dei giovani verso il loro potenziale, tutto qui. Spero sia un pensiero condivisibile.