Cosa temi quando corri?
Vorrei vivere in un mondo dove la paura di uscire a correre non sia altro che il grande spavento che possono fare le ripetute su una tabella di allenamento.
Una cosa che ho imparato in un anno di scrittura della mia newsletter settimanale è che chiunque si trovi a produrre e condividere contenuti online presto o tardi si troverà a fare i conti con quello che accade fuori dai filtri del proprio spazio creativo.
Ho pensato molto se contribuire al dibattito che si è creato in seguito alla vicenda di Giulia Cecchettin con un contenuto su A cosa penso quando corro?. Questa vicenda e i suoi sviluppi mi hanno colpito in maniera molto più forte di quanto non lo abbiano fatto vicende analoghe.
Ho letto e ascoltato tante parole: i contributi audio, video, grafici che reputo più interessanti hanno espresso quello che avrei voluto dire in maniera molto più pregnante di quanto io non avrei saputo fare. Il resto è stato, in larga parte, rumore.
Dal momento che sono tutto fuorché qualificato a parlare con precisione di tematiche tanto complesse quanto delicate, come posso provare, nel mio piccolo, a portare valore sulla vicenda senza ricadere nel rumore? Come può esserci un legame tra questioni tanto terribili e qualcosa di tanto superfluo come la corsa che racconto in questo spazio?
Ho smesso di pensare a cosa avrei potuto dare io e ho cominciato a pensare a cosa avrei potuto imparare dal dibattito scatenato da questa situazione.
Sono stato zitto e ho ascoltato.
Sì, penso che sia arrivato il momento per noi uomini di praticare la bistrattata arte del silenzio; e non un silenzio passivo, sornione, distratto.
Al contrario, un silenzio attivo e partecipe, specie perché quello che arriva dalla controparte femminile è un grido - che abbiamo spesso liquidato a piagnisteo, squalificandone qualsiasi peso.
Credo che, in quanto uomini, potremmo mettere da parte il risentimento verso chi ci definisce parte del problema per cercare di capire perché veniamo definiti parte del problema.
Ascoltare
Ho parlato di quanto accaduto e del dibattito scaturito nei giorni successivi con le donne della mia vita: la mia ragazza, mia madre, le mie amiche.
Che cosa vi fa arrabbiare? Che cosa non sopportate di quello che succede? Cosa vi tocca sopportare?
Mi hanno parlato di un insieme di tante cose che viziano la quotidianità del loro essere donne: sono cose di cui in parte non avevo idea, e che in parte conoscevo per via delle storie lette negli anni sui social, nei commenti su Instagram, Facebook, nei Tweet, su blog.
Ho scoperto cose interessanti anche su di me: per esempio, senza mai sfociare in comportamenti violenti ci sono stati tanti, piccoli miei atteggiamenti di passività davanti a situazioni che potevano creare disagio a una persona. Ho spesso finito per minimizzare questi comportamenti.
Perché boys will be boys e allora che vuoi che sia | era solo una battuta | checcazzmenefrega.
Ho pensato: la nostra colpa non è un peccato originale - quella di essere assassini, o violenti per natura.
La nostra colpa è non esserci mai veramente fidati fino in fondo, fino a che magari non toccava noi personalmente, e quindi una persona a noi vicina.
Dopo un po’ che parliamo, la domanda «che cosa faresti se riacquisissi questa libertà di vivere la tua vita come vuoi, se non ci fossero uomini nel mondo?» ha prodotto una risposta che mi ha colpito:
«Una passeggiata, da sola, di notte, distrattamente»
Collegare i puntini
Come un flash, mi torna in mente un articolo che ho letto qualche mese fa, a cui lì per lì ho prestato attenzione nulla.
Un uomo ha pedinato e aggredito una runner durante l’attività sportiva a partire dai dati raccolti tramite Strava - popolarissimo fitness tracker e social network che raccoglie vari tipi di dati di allenamento, tra cui una traccia del percorso compiuto.
Nel frattempo, io pubblicavo e pubblico i miei percorsi su Instagram, come se nulla di tutto questo stesse accadendo - che ci voglia, in generale, più attenzione nella condivisione di questi dati indipendentemente da qualsiasi fattore è una posizione condivisibile, ma che esula dal focus della puntata.
Per un secondo ho vissuto il dramma di vedermi negata la possibilità di uscire a correre da solo - dopo il lavoro, magari, di sera - per il solo fatto di avere paura di uscire a correre.
A cascata, penso alle conseguenze: tutte le cose per me più importanti della mia vita sportiva in fumo.
In fumo le aspirazioni di registrare un personale sulla maratona, ad esempio, perché le corse lunghe mi porterebbero troppo lontano da casa, in aperta campagna; in fumo i miei momenti di solitudine riflessiva, perché è sempre meglio correre dove ci sono altre persone; in fumo le corse spensierate, perché c’è sempre qualcosa che può andare storto.
Cosa temi quando corri?
Grazie a Substack - la piattaforma che utilizzo per inviare le mail che leggete e supportare l’archivio dei pezzi di A cosa penso quando corro? - ho avuto modo di conoscere Sara, che scrive ben due newsletter e che è una runner.
Io viaggio in poltrona è un bellissimo appuntamento che racconta luoghi nello spazio attraverso i libri e la letteratura.
Anche Kalò Dromo è il racconto di un viaggio: quello che sta portando Sara alla maratona di Atene 2024, la sua prima gara sulla distanza. La maratona per eccellenza.
Mi sono immediatamente messo in contatto con Sara, ho bisogno di ascoltare, sapere se e cosa prova, se è tutto vero o se la paura proiettata sull’opportunità di andare a correre è una mia stupida appropriazione.
Sara, cosa temi quando corri?
Sara non ha semplicemente confermato i miei timori: mi ha risposto con una storia della sua paura di uscire a correre, una storia che io non avrei saputo neanche immaginare, e che è evoluta con lei.
Riporto le sue parole.
Ho 16 anni, ho appena cominciato a correre perché ho lasciato la ginnastica e mi sento monca se non metto il corpo in movimento. Sono con Laura lungo la strada che da casa sua al mare ci riporta alle nostre case di città. Non ci importa del fiatone, non smettiamo di parlare un momento. Poi ci accorgiamo di essere in un tratto isolato che chiamano il ponte di Femmina Morta. Ci diciamo ridendo "facciamoci brutte così nessuno ci tocca anche se siamo sole" e iniziamo a fare smorfie. Pensarci oggi mi raggela.
Ho 19 anni, sul lungomare che frequento da tutta la vita. Qui venivo al mare con i miei da bambina. Ci corro quasi tutti i pomeriggi quando finisco di studiare. Un pomeriggio è nuvoloso ma vengo lo stesso per svuotare la testa. Ci sono solo io. Io e un uomo che dalla spiaggia mi scorge, sale in strada e aspetta che torni indietro per aprirsi i pantaloni e mostrarmi il pene. Gli urlo contro il mio disgusto e lui ride. Dovevo girare prima e fare un’altra strada, mi rimprovero. Ma perché a sentirmi in colpa sono io?
Ho 25 anni e non corro più perché posso andarci solo di sera e ho paura delle ombre scure acquattate nel buio delle strade intorno a casa mia.
Ho 30 anni, è domenica mattina e un'auto accosta mentre corro. Con la coda dell'occhio noto che sono due ragazzi. Mi dicono qualcosa. Li ignoro, guardo avanti, aumento il passo. Forse mi hanno chiesto un'indicazione stradale. Non ne sono sicura ma preferisco non verificare. Qualcosa mi mette in allarme. Sarà il tono perentorio con cui si rivolgono a me o quel sorrisetto sghembo che intravedo. No, non è che preferisco evitarli, è che devo. Non è mai una scelta, ma un automatismo sviluppato per aggirare i rischi. Dopo avermi seguito per un po’ e aver commentato le mie gambe urlano che sono una stronza e ripartono sgommando. Penso: meglio stronza che in pericolo. Meglio stronza che stuprata. Meglio stronza che morta. Meglio di tutto sarebbe libera di correre dove voglio, quando voglio, senza che nessuno si pensi in diritto di intromettersi, importunarmi o spaventarmi.
Ho 36 anni e corro solo in pista in pieno giorno. Sopporto caldo e assenza d’ombra e faccio i salti mortali per incastrare un brandello di libertà tra lavoro e incombenze quotidiane a un’ora in cui da me ci si aspetta che faccia altro, per altri.
Ho 45 anni, corro prima dell’alba e con me c’è il mio compagno che conosce il mio tragitto. Non lo cambio neanche se mi viene voglia di imboccare una stradina laterale per variare o esplorare. Sa dove sono se ci distanziamo. La sua presenza mi rasserena ma mi priva anche del diritto alla mia solitudine, a un momento solo mio, da passare con me stessa. Però quando sono sola prima di uscire aspetto che sia giorno e vado solo dove corre altra gente. Chi me lo sta negando davvero quel diritto?
Ho 1000 anni perché a ogni passo calcolo tutte le variabili, tengo conto di ogni rischio, evito certi orari e molti posti, calibro con attenzione le mie opzioni e poi le restringo ancora di più per assottigliare il pericolo e contenerlo quanto basta per non rinunciare ad allacciare le scarpe anche domani. Correre stanca, ma vivere costantemente all’erta di più.
Leggo le parole di Sara, provo a invertire le parti: è difficile, non ho mai provato nulla di simile. Sento un forte senso di disagio.
Vorrei che questa puntata fosse percepita non come una strigliata - non da parte mia - ma come un invito. Credo che tutti, a vari livelli, e per quanto questi livelli siano man mano sempre più sottili, siamo coinvolti: tutti abbiamo qualcosa da imparare, abbiamo qualche comportamento da cominciare a mettere in pratica e qualche comportamento da dismettere.
Da dove cominciare? Intanto, credo sarebbe un bel passo da parte di noi uomini iniziare a domandare di più, ad affrontare la questione, a creare spazi di confronto e di ascolto con le donne che ci sono vicine, o a partecipare a quegli spazi entro cui siamo invitati: mi rendo conto che possa sembrare non facile, a me ci è voluto tutto questo tempo per cominciare a farlo.
Creiamoci una consapevolezza, diamo un peso al disagio che sentiamo trapelare dalle parole delle nostre interlocutrici.
Solo così, forse, potremmo cominciare a mettere qualche mattoncino verso un mondo più giusto.
Sì, è sicuramente più difficile che continuare a fare finta di nulla perché tanto «so bene che io certe cose non le farei mai e poi mai» - o, piuttosto, perché sono problemi che non mi appartengono?
Vorrei vivere in un mondo dove la paura di uscire a correre non sia altro che il grande spavento che possono fare le ripetute su una tabella di allenamento.
Ringrazio Sara per aver accettato il mio invito a condividere questo spazio. Senza la sua disponibilità, la sua puntualità e la sua capacità di elaborare esperienze complesse questa puntata non sarebbe nata.
Link utili
Riporto nuovamente le newsletter di Sara: Kalò Dromo
Io viaggio in poltrona
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Un contributo essenziale di Donata Columbro sul tema delle raccolte dati dal basso: per una fondamentale democratizzazione dei dati, della loro fruizione e del loro accesso
Mappe è una newsletter che sono proprio contento di avere scoperto (e sono sempre più contento di aver collaborato con Andrea): leggete l’ultima uscita e capite il perché
Un post di @uomini.eleganti che può fungere da guida tascabile a da dove possiamo partire per migliorare (qui il link).
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