Cosa ho imparato all'Università (che mi è tornato utile per vivere)
Sul valore concreto e tangibile dell’istruzione.
C’era un tempo in cui pensavo che studiare Storia mi avrebbe dato da vivere.
Lo credevo sinceramente, e non la chiamerei disillusione giovanile.
Sono serissimo: d’altra parte, vedevo un sacco di applicazioni lavorativamente utili alla conoscenza di nozioni riguardanti il concilio di Nicea, le clausole del patto Molotov-Ribbentrop, le galee della Battaglia di Lepanto.
Quando ho smesso di crederci ero già relativamente maturo, ma non certamente vecchio, né invecchiato.
Non mi sono mai voluto rassegnare all’idea che aver potuto studiare quello che amo sia stato, in fondo, un capriccio.
Credo si sia trattato, piuttosto, di un privilegio. Nel mio caso specifico, aver avuto la possibilità di passare la giovinezza a fare esattamente quello che volevo fare, pur sotto la pressione di un’alta aspettativa imposta da me stesso - un futuro dottorato, e perché no, l’insegnamento - è stata la più grande fortuna.
Mentre io passavo le mie giornate in biblioteca, a leggere il Morgante di Luigi Pulci e le commedie di Pietro Aretino, l’intellighenzia imprenditoriale italiana dibatteva: la scuola, o meglio, l’istruzione dovrebbe essere improntata alla formazione di risorse da impiegare in un lavoro vero da subito?
Che senso ha dare ai ragazzi la possibilità di fare quello che gli pare se poi il mondo vero, domani, gli farà fare di tutto, tranne che quello che gli pare in quel momento?
Instradiamoli subito; poi non se ne pentiranno, li compreremo con la prospettiva di un futuro migliore di quello auspicabile se vorranno fare di testa loro.
In ogni caso, gli imprenditori sono tutti sicuri di una cosa. Che laurearsi in lettere a poco serva: imparassero quello che conta, questi ragazzi; che mai potrà portarti una laurea in lettere se non una cattedra che sarà comunque occupata da qualcun altro? A scaldare la sedia, a fare lo statale.
Alla fine, un dottorato non l’ho preso. Mi sto ritrovando a fare tutt’altro rispetto a quello per cui ho studiato all’Università (ne parlo anche qui).
Se dovessi valutarmi con gli occhi di un performance reviewer - prono al mero giudizio di efficienza - l’Università è stata per me niente più che una perdita di tempo.
Eppure, senza il periodo universitario io credo che non ce l’avrei fatta a essere dove sono - totalmente felice e convinto nel fare quello che faccio, pur essendo la mia professione la cosa più divergente possibile dal piano originario.
Non sono qui a dire che se ce l’ho fatta io, ce la fa chiunque, che volere è potere, e altre puttanate atroci che capita di sentire di frequente in questo periodo. Allo stesso tempo, credo che sia bellissimo iscriversi all’Università con una precisa idea del proprio futuro in testa: da grande voglio fare il [inserire professione a caso].
Sono qui a dire che la vita prende pieghe diverse rispetto a quanto preventivato, e che l’idea di Piano A, Piano B ecc. è una cazzata. Ritrovarsi, dopo l’Università, a fare il lavoro che si sognava nel momento in cui si è cominciato ad ascoltare la prima lezione del primo anno non è scontato.
Un bel modo di dire che ho fatto mio in questo periodo è: life happens, la vita succede. Lo applico anche allo sport…
Per alcuni è un privilegio riuscirsi; altri (come me) sono totalmente contenti della piega che ha preso e non farebbero a cambio, con il senno di poi. La vita è successa, semplicemente.
Sono qui a dire che nel 2023 la necessità di scendere a compromessi con i sogni giovanili è un dato di fatto. Non finisce sempre bene, non finisce sempre come vorremmo.
E di quello che si è dovuto imparare agli esami, alla fine della fiera, ce ne facciamo relativamente poco.
E allora? Buttiamo via 5 anni di studi, di sacrifici, assegneremo davvero la vittoria ai performance reviewer facendoci dire che sì, abbiamo sprecato tempo?
Della battaglia di Rocroi e del cuius regio eius religio dell’imperatore Carlo V non mi ha mai chiesto nulla nessun recruiter; delle storture del Rinascimento Anticlassico non mi ha mai chiesto nulla alcun CEO; al team di marketers di cui faccio parte importa relativamente delle incursioni vegetali negli scritti di Gadda.
Come mai, allora, reputo il periodo universitario così importante?
Per almeno tre motivi.
All’Università ho imparato ad imparare.
All’Università ho imparato a non sottovalutare mai il ruolo dello stupore.
E soprattutto: all’Università ho imparato a perdere tempo.
Approfondiamo brevemente ogni punto.
Imparare ad imparare
Se dovessi individuare la cosa che vale il prezzo del biglietto, per quello che riguarda la mia esperienza con l’Università, non avrei dubbi.
Imparare ad imparare, o come si diceva una volta: il metodo di studio. Imparare è una specie di abitudine che va allenata, e l’Università mi ha messo nella condizione ideale per prendere questa abitudine.
Mi ha messo nella condizione ideale poiché lì, prima che in altri posti e per la prima volta nella mia vita, ho sperimentato le connessioni tra le cose, tra gli ambiti di studio. La contaminazione tra cose, fatti storici, artistici, letterari; scientifici e politici.
Tentare di capire il mondo diventa più facile (non facile) quando ci mettiamo in testa che esso è difficile. Irrimediabilmente difficile; non ci sono modi di semplificarlo, mai ce ne saranno.
La cosa più difficile di un mondo difficile è comprendere quale sia la domanda giusta con la quale interrogare sé stessi di fronte a quello che accade.
Ecco, imparare ad imparare non è altro che questo: imparare a fare la domanda giusta, possibilmente alla fonte giusta.
Imparare che ci sarà un dato momento nel quale saremo i peggiori al mondo nel fare qualcosa, e va benissimo così.
Considero la capacità di mettermi nella condizione ideale per imparare molte cose una delle abilità di cui vado più geloso.
Non sottovalutare il ruolo dello stupore
Il garbuglio del mondo - l’ingegner Gadda lo chiamava gnommero - è estremamente interessante.
Studiare, andare a fondo mi ha permesso di addentrarmi nel mondo dei grandi perché. Perché Michelangelo a scolpito un’opera straordinaria come il David per una città tutta sommato debole per il tempo, come Firenze, stretta tra il morso della Francia e quello dell’Impero? Perché Calvino ha addossato sulle spalle di Pin, niente più che un bambino, il racconto drammatico della Resistenza?
Perché il male? Perché questa vita? Perché a me?
C’era un libro di interviste a Kubrick - che poi ho perso da qualche parte, probabilmente a Bologna - che si intitola “Non ho risposte semplici”.
Cosa è più commovente che stupirsi, dopo anni, nel ravvisare la bellezza di una scoperta?
La difficoltà delle domande esalta la bellezza delle risposte: incomplete, imperfette, eppure ogni tassello che aggiungiamo ci avvicina allo stupore.
Lo stupore di capire come tutto sia, in fondo, connesso. La nostra vita con le vite degli altri. La nostra vita con la Storia del mondo, la storia dei popoli con la storia delle scoperte scientifiche, del pensiero - uno dei libri più belli che abbia mai letto (un classico di saggistica contemporanea) parla di questo.
Imparare a perdere tempo
È contro intuitivo, specie detto da me.
Ma all’Università non ho solo imparato che perdere tempo è fondamentale. Ho anche imparato che è fondamentale imparare a perdere tempo per bene.
Non ho appena detto che stando all’intellighenzia la mia carriera all’Università è stata una colossale perdita di tempo?
Che persona fortunata sono stato? Cinque anni a perdere tempo, e alla fine me la sono cavata comunque.
Nella biblioteca dell’Università, al dipartimento di Italianistica, sapevo sempre come perdere tempo. Leggevo libri presi a caso dagli scaffali. Andavo alla finestra a guardare le finestre del dipartimento, tutte uguali; oppure me ne stavo alle macchinette, a chiacchierare; oppure per conto mio a guardare il muro.
Perdevo tempo. Perdendo tempo ho imparato che delle volte bisogna mettere le cose in stand-by per capire se quello che facciamo sta funzionando oppure no.
Oziare per riordinare le idee.
Perdere tempo per darsi tempo. Tempo per capire se la scelta dell’Università sia stata qualcosa di giusto o la pietra tombale sulla propria carriera; tempo per reagire, prendere le misure; prenderci le misur
e.
Sì, a chi mi chiederà cosa ho fatto all’Università risponderò: “Ho perso tempo”.