Che fine hanno fatto le mie corse?
Sembrava che dopo un po' di stop tutto stesse tornando alla normalità. E invece sono ancora fermo
È da un po’ che su A cosa penso quando corro? non parlo di corsa. Se una premessa fondamentale del titolo di questa rubrica viene a mancare, una spiegazione almeno saltuaria dovrebbe essere fornita alle mie lettrici e lettori.
Ma perché non parlo più di corsa?
Un po’ perché il ricordo del trauma di Madrid è ancora vivo - con il senno di poi apprezzo ancora di più la mia impresa, e con lo stesso senno di poi maledico ancora di più l’idea di correre sul dolore.
Un po’ perché la corsa è passata in secondo piano con tutto quello che è successo queste settimane - pensare agli argini su cui ho formato la mia passione, a pochi kilometri da casa, transennati e chiusi al traffico per possibili smottamenti e cedimenti fa stringere il cuore.
La dura realtà è che non mi sono ripreso da Madrid.
Ma andiamo con ordine. Dopo circa un paio di settimane di stop, e senza più dolori al ginocchio nel fare le cose di tutti i giorni, ho tentato una ripresa delle corse. Sembrava stesse andando tutto bene.
Senza esagerare, con calma, stavo tornando a riconquistare distanze abbordabili. Senza l’obiettivo di arrivare a correre venti kilometri nel giro di una settimana. Senza strafare, senza allenarmi tutti i giorni, senza, senza, senza.
E senza motivo il ginocchio ricomincia a dolermi. Perché? Sembrerebbe un problemino alla meccanica di corsa, a cui sto lavorando.
È dura stare fermi - anzi durissima, credetemi. Nonostante non me ne stia con le mani in mano, e stia lavorando in palestra con costanza per sistemare alcuni dei tasselli fuori posto accumulati durante gli ultimi mesi (a partire da questo problema al ginocchio), vivo l’impossibilità di correre come una grande mancanza.
E sì, da un lato mi manca il lato più competitivo della preparazione, dell’attenzione da riservare agli allenamenti più lunghi, delle ripetute che tagliano le gambe, dell’iscrizione alla gara, con il giorno da segnare sul calendario, il conto alla rovescia, la scelta meticolosa delle scarpe, dell’integrazione, le ritualità, i tempi, il lavoro di fino.
Ma dall’altro lato mi manca la serenità che mi ha trasmesso la corsa dal giorno zero. La calma, l’attimo di distacco, la possibilità di avere un momento per me, slegato da tutto e tutti. E che va ben oltre gli aspetti più semplicemente competitivi dello sport.
Era un momento che in ogni caso riuscivo a ritagliarmi, visto il benessere che mi dava, e nonostante la vita succedesse intorno a me, con le cose di tutti i giorni.
Tutto questo per dire cosa? Non bisogna dare per scontati i momenti in cui si sta bene. I momenti in cui ci si sente in uno stato di benessere, in cui tutto sembra girare per il meglio, in cui si è felici.
Per quanto le cose belle e che ci rendono felici possano sembrare il più delle volte (fateci caso) semplici, scontate, (economiche), e degne di un’attenzione “giusta” - come nel caso di una corsa all’aperto, che non ha la stessa faccia della felicità sicuramente più chic e patinata che vediamo tutti i giorni sui social - diamo a queste cose valore, peso, e spazio.
Insomma, per chiudere con Kurt Vonnegut - penna geniale della fantascienza del Novecento: Quando siete felici, fateci caso.