Qualche settimana fa ho provato a rispondere a una domanda. A che cosa serve l’arte?
Visto che trovo che le domande da un milione di dollari abbiano un fascino del tutto particolare, e che liquidarle perché ingestibili sia tanto sbagliato quanto azzardare risposte tutte bianche o tutte nere, mi sono detto: perché non riprovarci?
Magari questa volta potrei provare a spiegare qualcosa di ancora più vicino al mio vissuto personale e, per certi versi, professionale.
Allora chiedo a me stesso e a voi, (se vorrete rispondere via mail o con un commento alla vostra versione): a cosa serve la letteratura?
Tenterò una risposta a questa domanda la cui risposta è, sorprendentemente, anche più difficile della precedente sull’arte.
Questione di limiti
Quando si parla di letteratura io sono obbligato a partire dalla materia prima che la compone: il linguaggio.
Quel sistema straordinario di articolazioni foniche, che compongono le parole: che, a loro volta, sono un universo a sé e ci stupiscono con conformazioni morfologiche complesse (voi vi disarcivescoviscostantinopolizzereste?), e che si interpolano tra loro e si legano, come fossero elementi chimici, in aggregati governati dalle leggi mutabili della sintassi.
Ah, cosa c’è di più bello della sintassi?
Tornando a noi, forse la frase più famosa sul linguaggio che sia mai stata pronunciata è quella di Ludwig (per gli esterofobi Lodovico) Wittgenstein:
I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo
Ho sempre attribuito un significato molto astratto a questo assioma. Del tipo: ma certo, è proprio così.
L’idea che qualcosa possa essere alla mia portata solo ed esclusivamente attraverso il possesso della stessa per mezzo del linguaggio è qualcosa che credo di aver sempre dato per scontato.
È un concetto affascinante, se ci fermiamo un attimo a rifletterci.
In seguito, in una circostanza molto stupida mi sono accorto che l’assioma di Wittgenstein ha una valenza molto concreta. Stavo cercando di di tradurre dall’inglese al dialetto romagnolo una serie di hit pop-rock degli anni ‘90, per fare una serie di cover che potessero spopolare alle Feste dell’Unità in Romagna.
E mentre mi apprestavo al naturalissimo atto della traduzione (cosa che faccio tutti i giorni), mi rendo conto che il dialetto romagnolo non ha le parole per tradurre certi concetti nati in contesti culturali che sono talmente diversi dai luoghi in cui un dialetto particolare viene incubato, da suonare strani anche solo pronunciati in un adattamento.
Una parte di Mondo, per parlanti in dialetto romagnolo o qualsiasi dialetto come i nostri nonni, non esiste dal momento che queste lingue e chi le ha coltivate non hanno mai dovuto contemplare certe cose.
Essendo i dialetti lingue condannate se non all’estinzione a una conservazione nella naftalina, in soffitta, o al meglio in un tristissimo museo del territorio, un romagnolo che volesse parlare attraverso la sua lingua di un concetto nuovo non potrebbe farlo, o meglio potrebbe farlo prendendo a prestito e adattando termini. Creando linguaggio e possibilità di espressione.
Capito quanto possono essere stupidi i puristi della lingua e gli esterofobi in fattori linguistici? Lasciate che la gente espanda come crede i propri vocabolari.
Il linguaggio è libertà, la padronanza e l’utilizzo consapevole del linguaggio è una ventata di libertà. L’apprendimento nuove parole, espressioni, formule che in precisi contesti mi aiutano ad esprimere esattamente come mi sento mi offre un grande senso di libertà.
E la letteratura cosa c’entra in tutto questo?
La letteratura è la capacità di utilizzare il linguaggio per plasmare il reale intorno a noi, e non solo.
Sì, perché non è il reale che dà forma alla letteratura, quanto più il contrario: sono le parole della letteratura che definiscono la realtà.
Non è finita qui: perché il bello della parola poetica, della parola letteraria, è che non plasma solo il concreto, ma anche le astrazioni, le emozioni.
I primi e più importanti intermediari tra il mondo reale e astratto e la possibilità di percepirlo attraverso la letteratura sono i poeti. Se un concetto esiste, anche solo limitatamente all’esperienza singolare del poeta, ma non è mai stato espresso, la letteratura lo crea, attraverso la poesia.
Il dono del poeta è quello di universalizzare il proprio sentire: anche per questo con alcune poesie abbiamo un feeling straordinario, con altre meno.
Chi, se non un poeta, poteva dare alla contemplazione dell’incommensurabile vastità dell’infinito che si distende ogni tanto di fronte ai nostri occhi le sembianze di un naufragio?
In cima alla hit parade dei versi scolastici più in voga troviamo:
Così tra questa / immensità si annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Che - santo cielo - ci sia mai stato qualche professore che oltre a chiederci di mandare a memoria questi quindici endecasillabi sciolti di ermi colli ed enjambement, per recitarle con l’espressione di stoccafissi davanti alla classe, si sia fermato per più di cinque minuti a farci riflettere su cosa diavolo ci sia scritto in questa poesia, o idillio, o canto?
Ma potrò io a ventisette anni suonati e a due lauree in lettere rendermi conto di aver sempre dato per scontato uno dei pezzi di poesia più importanti della storia letteraria italiana, senza essermi mai chiesto neanche una volta perché questo è uno dei pezzi di poesia più importanti della storia letteraria italiana?
Un naufragio dolce. Ma potrà mai - ma dico io - un naufragio essere dolce? Ma Monaldo Leopardi, da uomo al servizio di porporati, come faceva a starsene tranquillo con l’inquisizione ancora in giro quando per casa aveva un figlio che fantasticava sull’annegare nell’immensità e sul naufragare dolcemente?
Ecco, questo, credo, è il senso della letteratura: estendere gli orizzonti di senso della parola naufragio alla dolcezza (cento anni precisi e i naufragi saranno legati da Ungaretti all’allegria: un carnevale, insomma), e aiutarci a spiegare con parole esatte, con le parole più adatte possibili quello che abbiamo dentro, e quello che vediamo fuori, che altrimenti rimarrebbe imbrigliato in un’esistenza silenziosa, e pesante.
La leggerezza dell’esatto
Ho usato due termini non casuali per restituire la mia idea di a cosa serva la letteratura.
Esatte, riferito alle parole ed espressioni in assoluto più adatti a spiegare quello che sentiamo;
Pesante, riferito all’esistenza di quello che abbiamo dentro e non abbiamo la capacità di fare uscire.
Sono due parole al centro delle da me amatissime (e citatissime) Lezioni Americane di Calvino.
L’esattezza esaltata da Calvino è la capacità del grande scrittore di pesare il linguaggio in modo tale da trovare le parole più giuste, più adatte, pur nella consapevolezza che le parole sono fragili, e c’è sempre chi possa trovare parole ancor più esatte. E pazienza, fa parte del gioco.
La letteratura, quella che resta, è l’arte di quegli uomini e di quelle donne che portano sulla carta nella maniera più esatta ciò che si prefiggono di ritrarre. L’esattezza è un lavoro di cesello sulla lingua - i grandi maestri in questo sono scrittori metodici e meticolosi come Stephen King, per esempio.
Pesante, invece, all’interno delle Lezioni Americane compare in contrapposizione a Leggerezza, un termine di cui ho parlato tantissimo qui su A cosa penso quando corro?.
La leggerezza della letteratura è la sottrazione di peso al dramma della realtà, fisica o astratta - laddove la pornografia del dolore (una delle espressioni formulari di questi tempi) ne è il completo opposto.
Alleggerita, depurata dallo slancio poetico dello scrittore, creatore di mondi e liberatore di emozioni, la realtà filtrata dalla letteratura ha la capacità di elevarsi sopra lo scorrere della Storia, e le sue parole restano spesso l’unica mappa che abbiamo per orientarci tra le ragioni del male e del dolore che accompagna le nostre vite; o per universalizzare le nostre gioie.
Lo è stato per Dante, lo è stato per Leopardi; lo è stato per Ungaretti, lo è per noi oggi.
Me ne accorgo in modo particolare in questi giorni di profondo strazio umano (non ho saputo trovare parole più esatte di queste, mi perdonerete se ne avete di migliori) per quello che succede a poche ore di aereo da casa, su due fronti differenti. Senza un perché, o una risposta semplice, torno a convincermi della necessità della letteratura, di chi la produce, di chi la studia e di chi se ne prende cura.
Alcuni spunti per chi giunge fino a qui:
Settimana difficile: difficile pensare ad altro rispetto a quanto non stia accadendo sulla sponda orientale del Mediterraneo, difficile trovare fonti di informazione adeguate, soprattutto sui media tradizionali. Tutti hanno scritto tutto sul tifo da stadio, la pornografia del dolore ecc. ecc. ecc. Io consiglio questa coppia di video agnosticamente storiografici:
Poi consiglio anche la serie di Breaking Italy che ha trattato la questione: qui uno dei video della serie, ma in settimana ne sono stati pubblicati tanti.