A cosa penso quando corro - Il bicchiere mezzo pieno
Ho pensato di mollare la preparazione alla mia prossima gara.
Prossima gara: Maratona di Ravenna, 13 Novembre.
Sono stato costretto a prendermi una pausa forzata dalla corsa.
Proprio così. È successo sabato scorso. Mancano tre settimane esatte a questa benedetta maratona di Ravenna, con cui stresso me stesso, i miei allenamenti e chi mi è vicino e il mio piede destro decide bene di cominciare a darmi problemi.
Ho avuto una leggera tendinite al tibiale anteriore.
Nulla di invalidante, almeno nella vita di tutti i giorni. Cammino, faccio la spesa, prendo la metro. Posso addirittura fare le scale normali.
Un problema di un certo impatto, invece, se nell'economia di un allenamento di un'ora allo scattare dei venti minuti, puntuale come speciale Studio Aperto dopo una disgrazia, un dolore sordo al collo del piede comincia ad accompagnarmi.
Mentre corro, quel sabato mattina, il dolore sopraggiunge, come da programma, al ventesimo minuto spaccato di allenamento. È impensabile continuare, il dolore è sempre più acuto.
Penso di mollare.
E non parlo solo dell'allenamento.
Lo confesso, ho pensato di mollare questa maratona, a 90% dei giochi fatti, all'ultimo respiro della preparazione.
Ho il telefono in mano: sono fermo a Vimodrone. È il primissimo hinterland e la giornata è la più "hinterland" a cui si possa pensare. Grigio, un grigio bianco e smunto, malato.
Il paesaggio è quello tipico da "provincia denuclearizzata". Distese di palazzine residenziali, tutte ripetitivamente a là milanese, con piastrelle lucide colorate che tappezzano l'edificio facendo il giro.
Svetta la torre Mediaset da un lato, dall'altro si rincorrono gli ammattonati rossi di più moderni complessi residenziali molto anni Ottanta-Novanta lombardo; con gli alberi in filari ordinati, i parchi giochi, le fontanelle.
Come tutte le frazioni e i comuni del nordest milanese, Vimodrone è toccato dalla Martesana, il naviglio su cui ho costruito la mia resistenza alla fatica in questi mesi milanesi.
In questo periodo dell'anno è una veduta particolarmente triste: con un sistema di dighe, l'acqua è stata deviata e all'altezza di Vimodrone - dove, lo ricordo, sono fermo col telefono in mano, nel bel mezzo di un allenamento - si vede il letto del corso d'acqua.
Mantieni la calma
Vorrei poter rileggere questa puntata tra un mese e dire: "Hai esagerato la storia per vendere più copie".
La verità è che è andata esattamente così. Ho pensato di fare un passaggio di pettorale, optando per quello della 21km.
Stesso giorno, stessa ora, metà dei kilometri. Distanza alla portata.
A posteriori, ho avuto una certa lucidità, in un momento di crisi: non prendere decisioni di pancia.
È uno di quei memorandum a cui, per quanto sembra assolutamente ovvio nei momenti di sanità, è davvero facile fare venire a meno mentre si è in preda a una crisi di qualche tipo.
Visto che mi sono preposto di dire la verità e solo la verità, il mio piano di mollare è stato sbandierato, lo ammetto. A qualche amico ho detto "mollo". E ci ho anche creduto per più di 30 minuti.
Poi, dopo un respirone: "demotivato? mollo? ma che mollo, ma quale mollo, cioè cosa vuol dire mollo? mollo che?"
Lo spettacolo deve continuare.
Cosa mi ha fatto cambiare idea? Una chiamata.
Chiamo l'osteopata da cui mi sto facendo trattare in questo periodo; un santo. Mi invita alla calma: "porteremo a termine la gara; tu riposati, metti il ghiaccio e martedì testi il piede: vedrai che starai meglio".
Mi fido, ma il piede fa male. Tornare a casa è un'agonia.
Arrivato a casa, mi appoggio alla porta come quei personaggi dei film horror dopo una fuga dagli zombie. Scivolo dentro e per poco non mi sdraio in terra appoggiato alla porta, stremato nello spirito ancor più che nel corpo.
Comincia una routine metodica di ghiaccio, pomata all'arnica, ghiaccio, pomata all'arnica (un toccasana per questi problemini); dalla domenica pomeriggio aggiungo un leggero stretching.
Poi arriva il martedì. Scatta l'ora della verità.
Martedì scorso salgo sul tapis roulant. Sono terrorizzato. Ascolto il mio corpo per ascoltare eventuali dolori sopraggiungere; ho i ricettori del dolore completamente in ascolto, tesi.
Allo scoccare dei 20 minuti mi sento ancora bene. Continuo, sereno: la gara s'ha da fare. Finisco un'ora di tapis roulant con l'aggiunta di 15 minuti tra allunghi e lavoro qualitativo.
Tiro un sospiro di sollievo. Non male se fino a tre giorni fa ero invalidato.
Il giovedì ri-testo il piede giovedì. Di nuovo, tutto bene.
Non resta che prepararsi mentalmente e fisicamente all'ultima corsa lunga prima della maratona.
Rispetto alle mie aspettative di chiudere un superlungo da 35 kilometri, viene fuori "un'uscitina" da circa 30 kilometri. Ricordo, sono 12 kilometri in meno di quelli previsti dalla maratona - il pensiero, al momento, mi sta uccidendo.
Mi godo la corsa in serenità, la giornata è splendida, il tempo è meraviglioso. C'è un caldo tiepido fuori stagione, maliziosamente piacevole; con la malizia sta tutta nella spaventosa entità del problema climatico che propizia questa estate che da maggio sta arrivando a novembre - siamo pur sempre vicini all'estate di San Martino.
Sono pronto. Ho completato la mia tabella di corse lunghe, come da programma: mancano solo due settimane, quello che dovevo fare l'ho fatto.
Ora viene la parte difficile: vedere il bicchiere mezzo pieno.
Il bicchiere mezzo pieno
Ho cominciato a luglio ad allenarmi per questa gara.
Più che per tempi tecnici, per darmi un obiettivo reale dopo che per due mesi, in seguito alla mia ultima gara primaverile, non ho fatto nulla di proficuo.
Sono partito con un carico di speranze non indifferente.
Una voglia di spaccare, aggredire la gara, di migliorare la mia performance a Roma, di non sfigurare; di avvicinarmi al mio obiettivo finale - che non rivelerò per scaramanzia, ma che alcune persone già sanno.
Come posso ritenermi soddisfatto se so che questo incidente fortuito sarà di intralcio tra me e il mio risultato?
È una delusione? È una vittoria mutilata? Ma soprattutto: non sarebbero considerazioni da fare dopo la gara?
Non credo, sono sincero.
Non si dice, non ho già detto che l'importante è il percorso? - quando parlavo di percorsi di vita - ovunque esso porti?
Il fatto di aver vissuto intensamente qualcosa di importante per me, di avere creduto ardentemente, di essermi applicato non perché da questa cosa sarebbe materialmente passata la mia sopravvivenza - non essendo io sportivo professionista e guagnandomi da vivere in altra maniera - ma perché semplicemente questa cosa mi fa stare bene.
È uno di quei concetti triti e ritriti, a tratti retorici? Sì, lo è. E quindi non c'è un fondo di verità valido in saecula saeculorum?
Ho imparato un sacco di cose durante questo processo:
ad accettare la stanchezza fisica;
ad accettare il ruolo della stanchezza mentale e il suo impatto devastante sulla stanchezza fisica;
a farmi una ragione degli imprevisti
a comprendere ancora meglio quanto sia fondamentale dormire;
a non incolparmi eccessivamente per performance sotto tono, soprattutto dopo aver dato il massimo;
a modulare il lavoro fisico sulla base delle mie sensazioni e avere la saggezza di cancellare allenamenti di troppo in caso di stanchezza fisica e dolori;
a conoscere ancora meglio il mio corpo nei suoi limiti sporitvi e fisici;
a riconoscere i miei limiti sportivi e fisici.
Sono concetti, spunti e idee che credo possano essere applicati da chiunque, in quasi qualsiasi ambito. Sicuramente per quello che riguarda gli hobby e il tempo libero: considerateli la prossima volta che comincerete a dedicarvi a qualche attività, magari potranno darvi qualche direttiva per essere meno sever* con voi stess* e godervi ciò che amate fare.
E se qualcosa va storto, almeno finché si tratta di corsa o sport: stringete i denti, rivedete i vostri piani e datevi una pacca sulla spalla, che sia un fine gara o un fine allenamento. E alla fine della fiera, tutto sommato, avrete imparato qualcosa.
Questo è il mio bicchiere mezzo pieno: in attesa della gara, finalmente. Spero di essere saggio abbastanza da non lasciare che questi insegnamenti divengano carta morta.
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