A cosa penso quando corro - Cosa c'entra con quello che hai studiato?
Questo weekend tornerò a casa per le elezioni.
È relativamente strana questa toccata e fuga ravvicinata, pur dettata dai diritti e doveri di cittadino modello. Sono abituato, per varie esigenze, a passare a Milano diversi mesi consecutivi.
Sorvoliamo sulla parte del racconto in cui parlo dei sentimenti che si provano quando si torna a casa, eccetera. Mi voglio concentrare su un altro aspetto del ritorno a casa.
Prossima gara: Maratona di Ravenna, 13 Novembre
Km Percorsi: 419.23 (sono stato fermo questa settimana, racconterò poi)
Quando mi trovo in Romagna dopo mesi e mesi passati a Milano mi capita di sostenere conversazioni grottesche con una categorie di persone tra le più scomode in cui imbattersi: i vecchi conoscenti.
I vecchi conoscenti includono una forbice di persone eterogenea, che va dai lontani parenti che vedi solo a Natale ai compagni di classe delle elementari o delle medie.
In breve, per un motivo o per l'altro sapete quanto basta delle reciproche esistenze per avere una conversazione di base.
Loro sanno di te abbastanza per farti domande, e viceversa; ma è come se il software non fosse mai completamente aggiornato.
Immagina di installare su un computer del 2022 Windows ‘98… paragone calzante: magari in qualche caso ti fa anche piacere incontrare una vecchia conoscenza, ma il 90% delle volte faresti anche volentieri a meno.
Le possibilità di trarre piacere dalla conversazione sono contenute, ci si saluta volentieri, ma se proprio ci si ferma, si parla quasi sempre più per galateo che per vera voglia di dialogare.
Lo confesso, sono una di quelle persone di merda che se vede qualche vecchia conoscenza in lontananza avanzare nella propria direzione tira fuori il cellulare e abbassa lo sguardo.
Nella maggior parte dei casi, se posso, evito di finire in queste conversazioni.
Quando mi trovo in queste esibizioni di galanteria, sorrisetti falsi e small talk, so già qual è il copione di massima. Quasi subito, emergerà questa domanda:
“Cosa fai ora nella vita?”
"Non ho risposte semplici"
Prendiamo il mio caso.
Con ogni probabilità una mia vecchia conoscenza (relativamente aggiornata) sa che fino a (ormai) qualche anno fa fa stavo studiando Lettere a Bologna; magari sa che tra le mie preferenze ci fosse l’insegnamento - ma ho cambiato idea davvero tante volte.
Comincio a rispondere.
“Vivo a Milano”. Primo sbarramento di occhi: in parte per il fascino evocato dall’importanza del luogo - come raccontato qualche numero fa (ACPQC? ep. 5, Storia di un incontro con Milano).
“Lavoro in una start-up”. Secondo sbarramento di occhi: lavorare? "Chi ha studiato letteratura? Pensavo intendessi insegnare. Quello potete fare, voialtri topi di biblioteca".
Tralasciamo confusione e sentimenti contrastanti (roba da comunisti cyberpunk) verso il labile significato del termine start-up, che a tratti sfugge anche a me e andiamo avanti...
“Ci occupiamo di Realtà Virtuale e di Realtà Aumentata”.
La situazione è definitivamente fuori controllo.
Richiesta di spiegazioni; spiegazioni fornite un po' così, alla mano; fanno seguito esternazioni tipo “ah ma è quella roba che ti metti il casco?”, “mio cugino ha l’ultimo modello, ma dice che non ci sono tanti giochi” - in alcuni casi: “ma ti immagini i porno dentro quel casco?”, tratto da una storia vera.
Risatine di circostanza...
Quando lo stupore ha raggiunto il suo apice, arriva finalmente LA domanda, quella che temevo e sapevo mi sarebbe stata fatta, praticamente una conseguenza naturale della domanda di apertura:
“Ma tu non studiavi letteratura? Non ti piaceva Dante? Cosa c’entra quello che fai con quello che hai studiato?”
Scienza, fantascienza, letteratura e dintorni
Vi percepisco, care e cari lettor*, che dietro lo schermo vi aspettate la risposta illuminante. D’altra parte, sono arrivato alla settima puntata: qualcosa sullo scrivere cose illuminanti lo dovrei avere imparato (o no?).
Quindi? Cosa c'entra quello che faccio con quello che ho studiato?
E invece io non ho risposte semplici: né tantomeno illuminanti.
Potrei rispondere così, in maniera molto sintetica.
Immaginatevi come potrebbe suonare un rimprovero del genere mosso a Dante: “Caro Dante, tu eri un grande poeta, ma con che pretesa ti sei arrogato il diritto di parlare di Scienza, di stelle, di cieli, di pianeti, di filosofia!
Che poi era pure tutto sbagliato quello sbrodolamento di roba che hai scritto; il Sole manco gira intorno alla Terra, semmai il contrario”.
E il povero Dante a piangere in un angolo, preso dalla sindrome dell’impostore…
Quello che voglio mettere in luce è: ha senso chiedere, e chiedersi "cosa c'entra con quello che hai (ho) studiato?".
Storicamente, non ha mai avuto senso valutare un percorso di studi (in certi casi con esiti disastrosi): perché ora, che è il mio turno di trovare il mio posto nel mondo, mi viene chiesto "Ma cosa c'entra con quello che hai studiato?"?
Alimentando sì, nel mio caso, la sindrome dell'impostore - conto sulle dita di una mano i ragazzi e ragazze della mia età che non l'abbiano mai provata.
E quando parlo di questa domanda, non intendo tanto le chiacchiere tra amici, o vecchi conoscenti (si scherzava, vecchi conoscenti), o con qualcuno che sinceramente è incuriosito da un percorso di formazione e pone domande interessati e pertinenti.
Parlo di un livello subconscio, quello che oggi ci porta a pensare che se studi da A devi essere A e non puoi essere B (o anche B), che è una perversione del nostro tempo.
E affossa i sogni di tanti.
Osservo tanti professionisti in giro che la vedono così, in nome di un purismo mosso da constatazioni che la maggior parte delle volte hanno del ridicolo.
Avremmo impedito il piacere della scrittura al chimico Primo Levi, al medico Carlo Levi, all’Ingegner Gadda, al matematico Sinisgalli, al povero ragionier Svevo; a un Calvino instradato suo malgrado sulla via dell’agronomia? E a Pirandello che faceva odiare Copernico al suo Mattia Pascal?
"Carissimi dottori, cosa c’entra con quello che avete studiato?"
È proprio questa straordinaria fecondità prodotta dall’incontro tra campi del sapere totalmente diversi, contrastanti, stimolati da tipi di intelligenza opposti e diversissimi che ci salva.
Sì, ci salva: non esagero.
Ci tiene aggrappati alle domande che ancora vale la pena farsi, nella solitudine dei nostri momenti di riflessione.
E a darci, da più di 50 anni, le domande che ancora oggi ci rendono umani, non è una materia scientifica, o una branca filosofica, ma un genere letterario che unisce racconto, fantasia e scienza.
La Fantascienza.
Quell'incontro straordinario tra le necessità della narrativa, le conquiste reali della fisica e delle Scienze, enormi problematiche di carattere filosofico e quello che si riteneva sarebbe stato possibile in un futuro prossimo (e in molti casi si è verificato, con effetti inquietanti).
Nella fantasia di uomini dai destini disparati (alcolismo, povertà assoluta, droghe, problemi relazionali, ansia sociale, complesso del Messia) leggiamo il futuro, come se essi lo avessero vaticinato per grazia di qualche strano oracolo.
Etica, morale, religione, scienza, sorrette da un impianto narrativo gradevole e alla portata di tutti: cosa c'entrano queste cose tra loro?
Come ci porremmo certe domande “fantascientifiche” sul senso stesso della nostra contemporaneità, del nostro presente, se non ci fosse stato Philip Dick nel secolo scorso a farci vivere la vittoria del Terzo Reich e i problemi etici legati ai robot?
O se non ci fossero stati Asimov e Bradbury? A quali cruciali considerazioni sul nostro futuro ci hanno messo di fronte!
O se Kurt Vonnegut non ci avesse mai presentato Kilgore Trout e un leggerissimo - per dirla alla Calvino* - modo di guardare alle efferatezze più drammatiche della Seconda Guerra Mondiale?
*Il riferimento è alla leggerezza delle Lezioni Americane: il racconto che Vonnegut fa della Seconda Guerra Mondiale in Mattatoio n.5 è un capolavoro di leggerezza applicato al tema, con un apice assoluto nel racconto del bombardamento di Dresda.
Quindi, cosa c’entra?
Torniamo coi piedi per terra, ai muri senza quadri del mio monolocale.
“Ma quindi, questa risposta? Stiamo aspettando, siamo arrivati fino a qua, ci hai fatto la lezioncina e ora la vogliamo”
Ho avuto tempo, possibilità, voglia di studiare ciò che più mi ha appassionato. Ho tratto da questi studi insegnamenti: dal rigore assoluto del latino, ai voli interpretativi della critica testuale, pur basata sulla rigidità del modello filologico.
È questa, forse, la fortuna? Avere avuto la possibilità di confrontarmi sempre con quello che più mi ha interessato?
La fortuna di aver sperimentato qualsiasi tipo di studio, di approccio all’apprendimento: una certa curiosità che sento di possedere in maniera congenita.
Se proprio fosse necessaria una risposta, ecco cosa c’entra quello che faccio con quello che ho studiato: non ho mai smesso, nemmeno per un secondo, di prendere seriamente quello che per me è stato importante fino a un minuto fa.
(Che poi l'esame di informatica obbligatorio all'università rappresentò il mio voto più basso in assoluto. Ero valutato su cose che oggi mi capita di spiegare regolarmente a colleghi e amici... che vita).
I libri non sono meno importanti oggi di quanto lo fossero ieri. Chi sono stato non è meno importante di chi sono: è un assunto difficile a cui giungere, una conclusione difficile da elaborare.
È difficile, col senno di poi, perdonarsi certe scelte del passato. Non sarebbe stato più facile se avessi studiato qualcosa che c’entra con quello che faccio e che ad oggi voglio fare?
Beh, Lorenzo, ti rispondo così:
Nulla di quello che si è imparato (e si è stati) è davvero inutile.
Anche (e soprattutto) in un mondo del lavoro (vi vedo, guru di LinkedIn) che vuole convincerci che ci sono materie di serie A e materie di serie B; che chi legge ha tempo da perdere; e che chi si dà alle discipline umanistiche ha una vita da buttare.
Se vuoi aiutarmi a crescere...
Condividi “A cosa penso quando corro?” con qualche persona a cui pensi che questo appuntamento settimanale possa piacere!
Se proprio ami da impazzire “A cosa penso quando corro?” e non vedi l'ora che sia il giovedì per leggerla, sostienimi al prezzo di un caffè - e lasciami un tuo parere, perché nessun caffè offerto si beve in silenzio.
Questa settimana ho ascoltato:
I primi album degli Iron Maiden hanno una vibe punk che risolleva qualsiasi morale a pezzi.