A cosa penso quando corro - Abbandonate la nave
Dopo quasi 12 anni, tra liceo, università, master ed esperienze lavorative sto per abbandonare il mondo della cultura.
È stata una maratona, in un certo senso. La cosa brutta delle maratone è che finiscono.
E per alcuni finiscono male: alcuni si ritirano.
Uno sfogo personale, non richiesto, scritto totalmente di getto.
Le riflessioni personali raccolte di seguito non hanno l'obiettivo di suscitare pietà e indignazione nei miei confronti, non costituiscono un giudizio definitivo e sono tratte solo e unicamente dalla mia esperienza personale.
Ho smesso di credere nella parola Cultura. O meglio: ho smesso di credere nell'idea che mi sono fatto, nel tempo del concetto di Cultura.
È un po' come quando, dopo anni, continui a ritenere una persona amica nonostante non vi sentiate, né tantomeno vediate, da anni: eppure tu in maniera subconscia e irrazionale pensi che questa persona sarà lì per te.
Salvo poi accorgerti che, quando vi incrociate, è come aver incontrato uno sconosciuto.
Uno sconosciuto scomodo, per giunta, uno di quelli che di te sa solo cose del tuo passato, e le fa riaffiorare. Non lo fa con cattiveria, ma non puoi che essere infastidito dall'essere messo di fronte a quella abiura di te nella quale ti stai rispecchiando.
Ebbene, il concetto di Cultura, per come lo ho immaginato e inteso negli anni, per l'abnegazione con cui ho tentato di vivere studio e lavoro, è l'amico scomodo che mi guarda dall'alto al basso e che ogni tanto sembra chiedermi:
ma come ti sei ridotto?
Penso di essere nella posizione per chiedere: ma come ti sei ridotto tu!
Ebbene, cara Cultura: non mi giudicare. Nei volti di tutti coloro che mi chiedono perché? io parlo di disillusione giovanile, per non ammettere che ci ho creduto fermamente fino all'altro ieri; ma ho il sospetto di avere scommesso su un cavallo sbagliato.
Diciamocelo chiaramente. In Italia tutti pagano poco. La cultura più degli altri. Soprattutto se sei giovane.
"Eh, ma hai intrapreso questa strada, lo sapevi fin da subito che non avresti navigato nell'oro".
"Eh ma già ci sei arrivato a lavorare nella cultura, cosa vuoi di più? Accontentati di paghe da fame, sposa l'immobilismo polveroso e avvilente; aspetta il tuo turno e poi ripeti il mantra a chi, dopo di te, avanzerà le pretese che tu oggi porti".
No. Basta, non ci sto più.
Non ci sto più perché il potenziale della Cultura in questo Paese è sotto gli occhi di tutti.
Dal giorno zero siamo abituati al bello: i nostri occhi sono biologicamente educati alla bellezza di un patrimonio di cui non capiamo il valore, pur capendone in molti casi una distaccata importanza.
Che sia proprio qui l'inghippo?
Non capire il valore della Cultura. Non capire il valore della Storia che ci ha consegnato le opere d'arte che ammiriamo, mentre andiamo a fare un giro in un qualsiasi centro cittadino al sabato pomeriggio.
E finire per svalutare, sminuire; dare per scontato.
Diamo per scontata la Cultura. Proprio nel senso che non le diamo il peso che merita; non riusciamo a convincere noi stessi del nostro attaccamento profondo al bello che ci circonda, alle storie che emana, agli aneddoti che gli affreschi, le statue, le biblioteche, gli archivi, gli ammattonati, il travertino nascondono sotto la polvere dei secoli.
Non le diamo importanza sociale. Non le diamo importanza economica. La stessa importanza che altri popoli danno alla loro Storia, noi non siamo in grado di canalizzarla sul nostro patrimonio.
Potremmo ottenere 100: otteniamo 10.
E questo fa arrabbiare.
Non ho risposte semplici sul perché tutto questo accada, potremmo dover scrivere un libro.
Eppure ero stato avvertito, da tante, tantissime voci. "È un mondo difficile, nessuno ci crede veramente, alle promesse fatte di volta in volta: perché per te dovrebbe andare diversamente?".
E io volevo crederci lo stesso. Mi sono preparato, ho studiato. Sì, lo studio dovrebbe travalicare la venialità del guadagno: lungi da sogni milionari, io mi sarei accontentato di una vita dignitosa.
"Lavorerò nella cultura, amerò quello che farò".
Che sia una sciocchezza di gioventù o meno, questa è stata la convinzione che mi ha guidato.
Da gennaio, non lavorerò più nel settore. Per me, che ho sempre preso lo studio con la serietà con cui un professionista prende un lavoro, soprattutto durante gli anni dell'Università, si tratta di un allontanamento dopo quasi dodici anni.
Dodici anni in cui sono finito a credere che il mio fosse uno sforzo di serie B, per i suoi risvolti economici e sociali; uno sforzo antisociale, volto alla salvaguardia di un patrimonio e alla produzione di contenuti per una elite culturale già consolidata.
Abbandono la barca, prima che essa mi affondi. D'altronde, non di solo pane vive l'uomo; oppure, pecunia non olet, sicuramente non quella che arriva da settori non culturali, ma che serve per campare.
Cosa ho imparato in questo lasso di tempo?
I professionisti culturali, specie privati, sono una setta senza scrupoli e sono quanto di più lontano dall'inclusività possa esistere.
Una setta che tiene particolarmente al proprio posto sul piedistallo. Una setta che si è sclerotizzata sulla creazione di prodotti autoreferenziali, diretti a un pubblico vecchio non tanto biologicamente quanto nella mentalità.
Prodotti tristemente distanti dal vissuto dell'umanità alla quale vengono dati in pasto.
La Cultura in Italia è reazionaria. La Cultura in Italia è parodica.
Lascio fuori dall'analisi il pressoché assoluto scollamento tra arte contemporanea e pubblico medio. Sarebbe un discorso troppo vasto.
Voglio spezzare una lancia a favore del comparto. È un settore quasi completamente privatizzato, che ragiona con logiche di profitto molto accentuate e che, soprattutto nell'ultimo periodo, ha messo in chiaro una cosa: siamo un mondo per ricchi.
Più che Cultura, si tratta di lusso. Si tratta di un codice comportamentale particolare, un'ecosistema vero e proprio ricco di personaggi stravaganti, grotteschi.
Ma la banalità quando si tratta il tema è dietro l'angolo: non mi addentrerò oltre e tornerò su un binario altrettanto rovente.
Il comparto culturale in Italia è reazionario: ancora oggi, una serie di figure chiave nello sviluppo di un qualsiasi tipo di strategia a medio/lungo termine sono ostracizzate.
Parlo di esperti digitali, esperti di marketing, creativi digitali; esperti informatici, esperti di social media, designer dell'esperienza degli utenti.
E voi direte: "embeh, ci credo che hai il dente avvelenato, non fanno entrare quelli come te!".
Non esagero, però nel dire che lo sterminato patrimonio in mano al ministero è ostaggio di: palenotologi, archivisti, esperti di beni culturali, poche altre professioni umanistiche, che pur avendo il loro ruolo fondamentale non esauriscono le necessità e le possibilità di un mercato potenzialmente molto più vasto e remunerativo, per tutti, umanisti compresi.
Un Ancien Régime delle vecchie professioni culturali che sta alimentando la spaccatura tra grandi colossi che beneficiano dei rapporti pubblico-privato e agiscono con logiche di impresa virtuosa (non sempre) e tutto il resto.
Un potenziale inespresso, imprigionato di un idealismo stucchevole.
Un purismo ideale: la cultura oggi è in grande parte questo. L'inaccessibilità sociale e, in maniera ancora più preoccupante, l'inaccessibilità cognitiva della popolazione al patrimonio sono uno standard che... è accomodante, per qualcuno: va benissimo così.
Peccato che poi corsi universitari, master e bacheche social siano invasi dalle stesse persone che affossano il settore, a piangere per l'incapacità del settore di rinnovarsi.
Che non sa rinnovarsi, pur avendo schiere di neolaureati e masterizzati pronti esperti in nuove professioni a disposizione per migliorare? O che non vuole rinnovarsi?
La miopia delle istituzioni culturali è nel non voler riconoscere quanto il mondo nel quale viviamo sia mutato.
La battaglia per l'attenzione delle persone si gioca nel giro di qualche secondo. E le dinamiche per attrarre pubblico all'interno di mostre ed eventi culturali non fa eccezione.
Si tratta veramente di essere attrattivi per il pubblico alto spendente, già convinto, che continua ad alimentare i circhi delle mostre itineranti e dei teatri? Non mi sembra, se la lamentela continua retoricamente a essere la stessa, ossia che i giovani non partecipano alla vita culturale del Paese.
Pubblico colto, spesso elitario - siamo sicuri che questi illuminati sarebbero contenti di vivere spazi museali invasi da immigrati di seconda generazione che discutono a modo loro dell'opera d'arte?
Si tratta di smettere di prendersi in giro e capire che la fruizione culturale ad oggi è totalmente non attrattiva per giovani e giovanissimi: tra le altre cose, per possibilità economiche, per incapacità di mettere in comunicazione mondi distanti.
Si tratta di non voler capire che il competitor della cultura al giorno d'oggi è un pomeriggio al centro commerciale o una maratona di Netflix: non un altro prodotto culturale.
Si tratta di non voler capire che agli occhi di un pubblico di giovani la cultura non è qualcosa di sacro, che va preservato e, nonostante si scelga di non fruirne, verrà comunque rispettato. Il pubblico di tutte le età è sempre più immune al fascino di un'opera d'arte, o alla dolcezza del sole tra le arcate di un nartece romanico.
Si tratta di non capire che sì, il problema economico oggi è più accentuato che in passato, ma le scelte di spesa dei più giovani virano sempre su altro dalla Cultura. - anche laddove la cultura non ha prezzi inaccessibili, anzi.
Si tratta di non capire che la Cultura non è attrattiva oggi: perché per troppo tempo è stata incasellata in un limbo ideale (e irreale) dalla quale si è staccata dal vissuto collettivo e dalla socialità. Per troppo tempo si è presa troppo seriamente (non che non vada presa seriamente, è solo una questione di linguaggi).
Si tratta di non saper leggere in maniera critica questi fenomeni, affidandosi a strategie di breve termine.
Si tratta di scimmiottare sistematicamente i linguaggi di un pubblico giovane e giovanissimo con trovate di comunicazione talmente parodiche da risultare offensive - la critica, è la stessa mossa ai politici nel momento in cui sono sbarcati su TikTok.
Provando a scrostare l'aura seriosa, la Cultura ha finito per parodiare maldestramente linguaggi non adatti a esprimere le sue ragioni, laddove le strade da percorrere sarebbero potute essere altre.
Di chi è la colpa?
Non mi sono fatto un'idea precisa sul colpevole.
Credo che l'immobilismo e la scarsa ricettività del settore, che attraverso l'adozione di poche e semplici best practices dai famosi settori ostracizzati potrebbe fare tanto di più, siano uno dei colpevoli principali.
Sono sempre più convinto che l'idealismo, nobilitante agli occhi di certuni, non sia altro che il velo dietro cui si nasconde l'incapacità di innovare e di scendere a compromessi non intrinsecamente negativi.
Una scuola soffocata dalla logica del programma e dalla fin troppo presa dalle logiche della performance - anche se si tratta di un tema da affrontare con cautela.
Oppure: e se i colpevoli fossero ragazze e ragazzi come me? Che si sono arresi?
Ad oggi mi dico: di ragazze e di ragazzi che a differenza mia continuano a crederci, ce ne sono ancora tante e tanti.
Non mi sento di dire loro: "continuate, non arrendetevi", che è quello che mi sono sentito dire per praticamente sei mesi, continuativamente, da chi ha contribuito a farmi arrendere.
Non mi sento di dire loro nulla. È troppo presto, brucia ancora.
E come ogni cosa, ci sarà bisogno di un po' di tempo.
Mi scuserete per la banalità di alcune di queste considerazioni.
Ne riparleremo tra un po'.
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Questa settimana ho ascoltato...
Tears for Fears!!!!!!